Rosa Maria Faenza Jatta è stata per anni la curatrice del patrimonio storico-artistico della nota famiglia ruvese e grande parte ha avuto nelle lunghe trattative di acquisizione della collezione archeologica da parte dello Stato italiano, nel 1991. Figlia di Lavinia Bianzan Pollice, nata in Carnia da madre partigiana, e di Francesco Saverio Faenza, avvocato barese e nipote del musicista modugnese Nicola Faenza, conosce Luigi Jatta nel 1972 e lo sposa pochi mesi dopo, entrando così a far parte di una storia lunga due secoli. Non è un mistero che io conosca Rosamaria dall’alba del nuovo millennio, ma oggi parleremo di un tempo più lontano, di quegli anni novanta del Novecento che videro il passaggio da Collezione Privata a Museo Nazionale Jatta.
Signora, lei ha vissuto cinquant’anni della sua vita a Palazzo Jatta, in questa famiglia che poi si è indissolubilmente legata al suo nome e alla sua storia. Cosa ricorda della prima volta in cui ha visto il Museo? Quali sono stati i suoi pensieri di giovane donna?
I miei ricordi sono, purtroppo, un po’ sfocati dal tempo passato ma di certo non posso dimenticare che la mia prima visita al Museo fu in compagnia di una guida d’eccezione: mio suocero Nino Jatta. Ero molto emozionata e quasi imbarazzata, ma ben presto fui coinvolta dalle sue parole e, soprattutto, dai suoi ricordi del nonno e degli zii, eredi diretti dei fondatori della Collezione Jatta.
Quali fra i vasi di famiglia le piacevano di più e quale, o quali, dei numerosi personaggi raffigurati colpiva maggiormente la sua attenzione?
Ho sempre adorato i vasi più piccoli, quasi senza peso, le bamboline di terracotta, i tintinnabula e i rythà, ma anche la pelike apula a figure rosse con la scena di toeletta di due bellissime fanciulle. Il mio preferito, comunque, è sempre stato il vaso che raffigura il mito di Cicno, in una delle gesta eroiche di Eracle, insieme al cratere con il saluto di Ettore a sua moglie Andromaca e al piccolo Astianatte, dolcissima scena di amore paterno.
Nel 1991, dopo anni di estenuanti trattative, la collezione viene acquistata dallo Stato italiano e nel 1993 nasce il Museo Nazionale Jatta. Cosa ricorda di quegli anni, di quel passaggio epocale?
Furono anni molto difficili, morirono a pochissima distanza di tempo i miei suoceri e questo ci lasciò sgomenti, senza punti di riferimento. Era urgente trovare una soluzione per il futuro del Museo e fare in modo che
fosse lo Stato a tutelare la collezione archeologica, ormai di complessa gestione per la nostra famiglia. Non fu affatto semplice. Mio marito prese delle posizioni forti, come quella di impedire a tutti l’accesso alle quattro sale espositive finché le trattative non ripresero e si giunse all’atto di acquisto nel 1991.
Il tempo passa e lei un po’ alla volta ricostruisce tanto della storia di questa famiglia, apre le porte del suo Palazzo ai visitatori, crea un book shop e avvia un’attività di visite guidate alla scoperta di un patrimonio unico che valorizza e protegge. Risistema soffitte e cantine, apre armadi polverosi e vecchi bauli in cui scopre persino tesori inaspettati, come gli abiti delle famiglie Jatta e Bonelli, poi restaurati e pubblicati in una monografia, edita nel 2005. Nasce l’idea del “Grottone”, che risistema insieme a suo marito, oggi nuovo spazio espositivo del Museo in comodato d’uso decennale con la Direzione regionale Musei Puglia dallo scorso anno. Cosa c’era in questo luogo prima, perché si chiama così?
Mentre il Museo veniva riordinato dal Ministero dei Beni culturali, mio marito ed io decidemmo di sistemare l’enorme scantinato del Palazzo, il Grottone appunto, un tempo destinato alla conservazione delle mandorle e del grano. Ne venne fuori un unico ambiente di straordinaria bellezza che a poco a poco riuscii ad allestire, rendendolo abitabile. Erano conservati libri e attrezzi da lavoro agricolo, oggetti antichi e ricordi di famiglia. Ci abbiamo vissuto per anni momenti privati come feste di compleanno e anniversari, e pubblici come conferenze, concerti, presentazioni di libri; lì era custodita parte della nostra storia più intima. Oggi è tutto cambiato, sono i miei figli che se ne occupano insieme alla direzione del museo Jatta, ma io in questa storia nuova non c’entro.
Ho avuto molta responsabilità, invece, nella sistemazione di alcune parti del Palazzo in totale abbandono fino alla metà degli anni ’90, creando una specie di Casa- museo nell’ala nobile della casa, quella del salone delle feste e dello studio ottocentesco in cui si lavorava all’analisi dei vasi e si ricevevano ospiti importanti. Ricordo ancora la prima visita pubblica del Touring Club di Bari, nel 2001. In un solo giorno, fino a tarda sera, ben 800 persone vennero a Palazzo per conoscere la cosiddetta “Casa – Museo”. Ricordo che non avevamo luci a sufficienza per illuminare i grandi ambienti e accendemmo tutti i candelieri che trovammo in casa: fu un’esperienza indimenticabile.
Oggi nel Grottone c’è un video in cui si racconta la storia della sua famiglia, del tempo che è passato e di tutto quello che è stato fatto, di cui lei è stata quasi sempre protagonista. Lo scorso ottobre il Museo Jatta ha riaperto ed è tornato alla sua forma originaria. Qual è il messaggio, il dono, più importante che tutto questo tempo trascorso le ha lasciato?
Quando penso a questi lunghissimi cinquant’anni della mia vita passata a Ruvo e a tutte le emozioni vissute, ciò che ritengo davvero importante e indimenticabile è stata la gioia di avere in piccola parte contribuito a realizzare un sogno apprezzato e condiviso da molti: il Palazzo Jatta ha continuato a vivere insieme alla storia di una famiglia speciale, che ci ha regalato tante emozioni e momenti magici. Mi auguro che anche il mio amatissimo nipotino Giovanni possa avere altrettanta fortuna e vivere appieno una storia straordinaria da proteggere e, a sua volta, tramandare.
di Daniela Ventrelli