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giovedì, Maggio 2, 2024

Il mistero del tempo – Mons. Vito Angiuli

Desidero rivolgere un caro saluto al nuovo direttore della rivista “In Puglia tutto l’anno”, Damiano Ventrelli, con l’augurio di continuare l’opera magistralmente condotta fin qui dalla direttrice Ilaria Lia e l’auspicio di un nuovo impulso nella diffusione della conoscenza nel mondo delle molteplici ricchezze della nostra bella terra di Puglia.

Sul muro di uno storico ristorante di Santa Maria di Leuca, è riportata una frase dal sapore epico: «Gli dei non sottrarranno agli uomini il tempo passato a pescare». Questa espressione, tradotta da una tavoletta Assira del 2000 a.C., mi sembra una buona introduzione al tema generale di questo numero della rivista che intende soffermarsi sul valore del tempo.

La sapienza antica e moderna veicola significati validi anche per noi, sottomessi all’angoscia della frenesia del fare e all’ineluttabilità del tempo che scorre e non basta mai. Credo che tre immagini ci possono aiutare a fare luce su un concetto per sé difficile da capire: il bambino, la rosa e il vento.

«Il tempo diceva Eraclito – è un bambino che gioca, che muove le pedine; di un bambino è il regno». L’immagine criptica del filosofo greco associa il tempo alla leggerezza del gioco, alla casualità di un lancio di dadi, all’inesorabilità e al mistero del suo svolgimento. I greci, infatti, evocavano questo significato attraverso tre diversi termini: chronos, il tempo nella sua sequenza cronologica e quantitativa; aiòn, il tempo come dimensione della coscienza irriducibile a qualsiasi logica sommativa e lineare; kairòs, il tempo nella sua valenza qualitativa come occasione, momento propizio e favorevole da cogliere nella sua veloce e istantanea opportunità, per evitare il rischio di perdere occasioni preziose che non torneranno più. Gli stessi greci affiancavano poi alla concezione lineare del tempo, una visione di tipo ciclico, dove ogni cosa è impigliata nell’eterno ritorno dell’identico. Sempre Eraclito afferma l’unità dei contrari che si traduce in una vicenda di eterno mutamento e ritorno.

Questa visione ciclica ricompare in Così parlò Zarathustra di F. Nietzsche nell’immagine del bambino, in quanto terzo esito della trasformazione dello spirito: da cammello, lo spirito diventa leone, e infine il leone si tramuta nel fanciullo. Viene così adombrato un tempo senza tempo, una ruota che gira da sé, simbolo della libera creazione di valori, non però con l’intenzione di crearne di nuovi, ma per il puro piacere di giocare. Il tempo è come il serpente che si morde la coda. La staticità di questa immagine, cela in realtà una grande mobilità indicando l’energia dell’universo che si usura e rinasce in un perenne movimento di nascita e di annientamento e rinascita.

La seconda immagine del tempo è quella raffigurata dalla rosa. Essa rappresenta il desiderio di futuro, inteso non solo come il “tempo che sarà” o è destinato a essere, grazie al suo legame con il passato, ma soprattutto come il “tempo che resta”, assunto in quanto balsamo efficace contro lo smarrimento del presente. Tuttavia la pienezza ricercata e desiderata resterà sempre “a venire”, come «l’ardente e cieca rosa che non canto, / la rosa irraggiungibile» [Jorge Luis Borges, Poesia, La rosa (A Judith Machado)].

L’immagine della rosa ritorna nell’epitaffio che il poeta Rainer Maria Rilke volle che si apponesse sulla sua tomba: «Rosa, contraddizione pura! Voglia d’essere il sonno di nessuno sotto sì tante palpebre». Il tempo della vita somiglia a una rosa che vuol essere dimenticata e non coinvolta nel commercio e negli affanni dei mortali. Ma in quanto apposta su una epigrafe esprime anche il desiderio di essere ricordata. Il tempo contiene in sé una “contraddizione pura”: contiene, infatti, un doppio legame che respinge e attrae, invita a passar via e costringe a restare, rifiuta gli usi e supplica una cura.

La terza immagine è quella del vento che «soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va» (Gv 3,8). Non si sa, infatti da dove il tempo si origina e nemmeno si conosce la sua direzione. Si sa, però, che certamente viene. A questa caratteristica di inconoscibilità fa riferimento sant’Agostino quando afferma: «Se non mi chiedono cosa sia il tempo lo so, ma se me lo chiedono non lo so» (Confessioni, XI, 14, 17). Il tempo viene come “dono”. Nessuno può dirsi padrone. È una realtà che riceviamo, ma che non possiamo controllare. Per quanto lo desideriamo, non saremo mai capaci di dilatare o fermare un solo istante. Il tempo ci sovrasta e, pertanto, la sua cognizione si avvicina al mistero.

Mi sembra che oggi si viva una sorta di sbilanciamento nella considerazione del tempo e che si tenda a dare maggiore importanza alla dimensione quantitativa piuttosto che a quella qualitativa. Sembra che non abbiamo mai abbastanza tempo per fare quanto desideriamo, mentre occorrerebbe dare valore a quello che facciamo per trarne il maggior frutto possibile.

Bisogna trovare un equilibrio tra le due tendenze: da una parte, è sommamente comprensibile il desiderio di gustare quello che facciamo, dall’altra è altrettanto necessario dedicare il giusto tempo per compiere quanto desideriamo. Non dovremmo essere costretti a scegliere tra quantità e qualità del tempo, ma dovremmo saperle coniugare insieme.

Oggi va molto di moda il concetto di “turismo lento” che cerca proprio di armonizzare questi due aspetti del tempo. Da un lato richiede una maggiore quantità di tempo da dedicare agli spostamenti, al cammino, alle soste; dall’altro favorisce il gusto dell’incontro, della convivialità, della conoscenza di territori e soprattutto di persone con cui condividere le proprie storie, tradizioni, culture, religiosità.

Non è un caso che in una società che ha fatto della “corsa contro il tempo” la dimensione del proprio essere, si vada affermando l’esigenza di fermarsi, di rallentare, per dare spazio alla contemplazione, all’esperienza estatica e al gusto estetico, come esperienze di appagamento dell’anima.

In questo senso, i nostri territori hanno molto da offrire, sia per una esigenza pratica legata alla carenza delle infrastrutture, sia per una intenzionale organizzazione dell’esperienza turistica sfociata nella proposta di numerosi “cammini”, religiosi e laici. Si ha così la possibilità di apprezzare colori, profumi, sapori, volti, natura, arte, da cui nascono emozioni che si imprimono nel cuore e che difficilmente si dimenticano.

Mons. Vito Angiuli, vescovo della diocesi di Ugento – S. Maria di Leuca 

 

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