Fra i maggiori autori italiani contemporanei, Raffaele Nigro originario di Melfi, (classe 1947) ma pugliese di adozione, ha un’enorme produzione letteraria. Come giornalista, ha collaborato con i quotidiani Avvenire, Il Mattino, La Gazzetta del Mezzogiorno, Corriere della Sera. Con il poeta Lino Angiuli ha fondato le riviste Fragile, In/Oltre, Incroci e con Giuseppe Lupo, Mimmo Sammartino e Piero Lacorazza la rivista Appennino. Nel 1975 con un gruppo di poeti pugliesi (Giancane, Zaffarano, Bellino), ha dato inizio al movimento Interventi culturali. Come drammaturgo: nel 1980 ha scritto il Grassiere, allestito dal teatro Abeliano di Bari, in seguito nel 1986 Il Santo e il Leone, Hohenstaufen e altri lavori. Nella narrativa ha esordito nel 1986 con la raccolta di racconti A certe ore del giorno e della notte, cui hanno fatto seguito i romanzi storici I fuochi del Basento (1987), La baronessa dell’Olivento (1990), Ombre sull’Ofanto (1992) e Dio di levante (1994).
Il giornalista, lo scrittore, i ricordi nella sede regionale Rai di Bari
A Raffaele Nigro mi unisce una storia comune che è nata nella sede regionale della Rai nel 1979, l’anno in cui, il 15 dicembre, partirono le trasmissioni della terza rete, con un primo telegiornale regionale alle 19.30. Contemporaneamente iniziò una serie di programmi, a diffusione regionale, che avevano il compito di narrare le esperienze artistiche delle varie aree geografiche del territorio pugliese.
Cosa ti è rimasto di quel periodo, della tua attività di regista…
«Venivo dall’esperienza dell’insegnamento scolastico e dalla ricerca universitaria, la Rai mi gettò sulla strada e mi mise a contatto con la realtà quotidiana e con un mondo palpitante».
Alle 19.35 del 23 novembre 1980, in Basilicata ed Irpinia, un terremoto che causò circa 3.000 vittime, 10.000 feriti, distruggendo 75.000 abitazioni e danneggiandone gravemente 275.000. È stato il più forte evento sismico che ha colpito l’Italia negli ultimi 100 anni. Noi della sede RAI di Bari fummo subito allertati e il giorno successivo raggiungemmo la zona per narrare l’entità di quell’evento. Quale ricordo hai di quell’esperienza?
«Ero a Bari quando avvertimmo la scossa di terremoto, ci precipitammo in strada e sapemmo che gran parte del Sud era stato interessato dal sisma. Il mattino successivo fui convocato dalla Rai, mi toccava partire per Pescopagano con un convoglio di mezzi aziendali. Man mano che si saliva per l’Ofantina si incontravano auto in fuga. A Pescopagano trovammo l’inferno, strade tagliate, case sventrate, gente che urlava e piangeva e soprattutto i primi morti. Dopo i collegamenti con i telegiornali decidemmo di visitare i paesi circostanti e a Conza della Campania trovammo dei disastri irreparabili. Le file concentriche di case si erano riversate sugli edifici sottostanti, con un numero di morti spaventoso. Ricordo che non erano ancora arrivati dalle città circostanti i vigili del fuoco, non l’esercito, e solo c’erano alcune pattuglie di carabinieri. Occorsero più giorni perché il mondo scoprisse il raggio del disastro. Fu una settimana di amarezze e di infelicità, tra corpi che venivano estratti dalle macerie e disperati che scavavano con le mani nelle calcine. Un cataclisma che ci apparve come la fine del mondo».
Ma non solo di eventi tragici è stata l’esperienza dei primi anni della terza rete regionale. Ricordo alcune produzioni fatte con Vito Signorile al Teatro Abeliano come “Il Grassiere”…
«Certo, si realizzarono riprese di grande interesse, borghi poetici, opere d’arte, cripte, tradizioni popolari: errore non dare sbocchi nazionali a questi racconti periferici. Ricordo un incontro con Angelo Guglielmi, a Roma, mi aveva convocato per chiedermi un trasferimento a viale Mazzini. Mi sarei occupato di teatro e di letteratura. Disse che la televisione si fa dal centro. Gli risposi che la ricchezza dell’Italia stava nella diversità delle regioni e dei municipi. I programmi della sede regionale vennero chiusi e si continuò solo a realizzare dei tiggì locali. Cioè il nulla travestito da informazione».
Nel 1987 viene pubblicato “I fuochi del Basento” che si aggiudicò il premio Campiello, sicuramente il tuo più importante esordio come scrittore, a cui seguirono tanti altri romanzi.
«Per me fu un colpo di tamburo enorme. Si avviò una stagione importante perché mi proiettò nella grande editoria e nella società letteraria nazionale».
Il 1989 segna la chiusura del settore dei programmi regionali e tutti i programmisti-registi diventano giornalisti…
«Fu una fortuna per tanti, un disastro per altri. Chi amava raccontare fu condannato a micro informazioni locali, a cronache da riassumere. Poi arrivò l’emittenza privata e la gara al salto in basso. Con la televisione di Berlusconi fu un disastro, perché si privilegiarono il gossip, il vuoto totale e l’analfabetismo programmato. Ebbi la sola fortuna di essere chiamato a collaborare con alcuni contenitori nazionali come Mediterraneo e Bell’Italia. Fu un’esperienza interessante».
Nel lungo periodo trascorso in RAI, che ti ha visto, sempre come protagonista, nei ruoli di Regista, Giornalista, Direttore di Sede e Caporedattore, quali sono stati i momenti più belli da ricordare e quali quelli da dimenticare?
«Momenti belli furono i viaggi realizzati con le troupe, lo scandaglio dei territori, gli incontri con un mondo di operatori culturali. All’interno dell’azienda furono belli i miei rapporti con i colleghi, il rispetto reciproco e l’affetto. Nel contempo si palesarono gli odi e le invidie di alcuni, la scoperta di furti interni che mi tennero sulla corda per mesi, il malaffare dell’Usigrai che difendeva solo alcune figure di potere interne al Sindacato. Ricordo con rancore la stagione in cui per essermi candidato con Vendola me la fecero pagare declassandomi dai ruoli acquisiti e mi tennero in disparte, i momenti in cui fu privilegiata la candidatura di un collega al mio posto fino a pretendere la mia destituzione. Compresi allora cosa fosse la Rai dove non contava l’impegno ma solo la lottizzazione e il rapporto tra amici degli amici».
Nel tuo ultimo romanzo “Il cuoco dell’Imperatore” hai raccontato la vita dell’imperatore Federico II di Svevia con gli occhi del suo cuoco Guaimaro delle Campane, originario di una famiglia di fonditori di Melfi, fuggito per non essere accusato dell’uccisione di due carbonai ebrei nel 1208. Come mai hai fatto questa scelta?
«Ho scelto Federico perché è una figura che mi ha sempre accompagnato nella mia vita. Ma è anche una creatura che interessa ancora alla collettività meridionale. In una stagione in cui è morta la passione per lo studio e per la formazione storicistica e in cui assistiamo a una fuga spaventosa di giovani, ho pensato di riproporre al mondo alcuni momenti del passato in cui il Mezzogiorno è stato straordinario e vincente. Ho fatto raccontare la vita dell’imperatore svevo dal suo cuoco personale, una figura che nel passato era fondamentale nella vita di un monarca. Era qualcuno che viveva affianco ai re mattina mezzogiorno e sera. Di qui l’idea di un cuoco».
Nelle tante avventure che hanno legato i due protagonisti di questo romanzo si delinea un affresco dei luoghi in cui questa storia si dipana, la Basilicata con la natia Melfi, la Sicilia con la reggia di Palermo, ma anche la Puglia, con il primo tentativo di integrazione interreligiosa e politica. Non ultima la descrizione di cibi e rimedi salutistici dell’epoca.
«Ho raccontato attraverso Federico le regioni che ho conosciuto e che ho amato e la cultura gastronomica, le ricette e la quotidianità. Ovviamente mi hanno aiutato i piatti poveri del sud e tutto ciò che potrebbe essere nato prima della scoperta dell’America e prima della società industriale. È nato un romanzo di cui sono soddisfatto e che ha avuto una sua fortuna»
Tra mille avventure e disgrazie storiche si intravede un ritratto inedito di Federico II Hohenstaufen, della sua variegata personalità ricca di curiosità intellettuale. Viene fuori il volto di un imperatore paladino del diritto e della scienza, in un secolo buio, un sostenitore della politica contro la violenza. Il promotore del progetto di un’Europa unita, e di un Mediterraneo dei saperi con una divisione tra il potere temporale e spirituale. Sembra il progetto di un futuro possibile per l’oggi, mentre tutto accadeva otto secoli fa.
«È tutto vero, hai colto nel segno. Soprattutto ho amato di Federico l’aver privilegiato il Diritto, la cultura letteraria e gli eventi fondati sulla retorica e non sulle armi. Federico è il primo imperatore che entra in Gerusalemme senza spargere una goccia di sangue. Uno che promuove il dialogo tra arabi e cristiani e che vede nella natura delle regole da interpretare. Non dimentichiamo infatti il suo De arte venandi cum avibus e nel diritto le Costituzioni di Melfi, con cui il Medioevo attraversa finalmente le porte della modernità».
Da lucano che ha scelto di vivere in Puglia, mi vuoi raccontare 5 cose che vorresti cambiare in questa regione e 5 cose per cui vale la pena di rimanere…
«È complicato rispondere a questa domanda perché la Puglia è variegata e davvero vale il plurale; le Puglie. Potrei dire che incentiverei la vita culturale della Capitanata, del Brindisino e del Tarantino, che vorrei una vita politica meno affaristica, una università meno corrotta, promuovere il blocco della mafia, il restauro di molti centri storici, mi duole l’assenza di mecenatismo.
Per il resto amo la concretezza dei pugliesi, la cucina, le bellezze paesaggistiche e architettoniche, la laboriosità, la vivacità di un mondo che ama l’allegria, amo le sagre e le feste tradizionali e ovviamente la cornice immensa e straordinaria del mare».
di Damiano Ventrelli