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giovedì, Aprile 25, 2024

La Puglia raccontata da Gregorovius (1821-1891): Il viaggio, i monumenti e il “magnetismo della storia”

Fra le tante cose, a cui abbiamo dovuto rinunziare in questo lungo anno di pandemia e di forzato isolamento, forse una di quelle di cui più abbiamo sentito la mancanza è il viaggio. Il viaggio è stato da sempre una delle esigenze primarie dell’uomo, basta pensare a Omero e al personaggio di Ulisse, alla “Divina Commedia” – anche quello di Dante è uno straordinario viaggio – e perché no, si parva licet, al “Giro del mondo in 80 giorni” e agli altri viaggi fantastici per mare e nei cieli di Verne e persino al viaggio sulla luna, da quello immaginato di Cirano de Bergerac a quello reale e memorabile del 20 luglio 1969 che abbiamo ricordato poco più di un anno fa, a Marco Polo, a Montaigne, e più vicini a noi, Goethe, Stendhal e tanti altri. Dal viaggio si è appreso sempre molto di più di qualunque lezione, e ogni viaggio è un’esperienza unica che serve alla vita e alla conoscenza di sé e degli altri.

Molti sono stati i viaggiatori in Puglia, i giovani che inserivano nel Gran tour il sud Italia, quasi del tutto sconosciuto nell’800, e gli intellettuali, che si erano fatti un’idea del paese che volevano visitare e venivano per prendere contatto personalmente con una realtà diversa: celebri sono i nomi di Brandi e di Piovene, ancora più famoso il viaggio di studio di Ernesto De Martino, che cercava conferme ai suoi studi e alle sue intuizioni antropologiche.

Particolarmente interessante il viaggio di Ferdinando Gregorovius (1821 – 1891), storico rigoroso ma in gioventù anche poeta e romanziere, tedesco tutto d’un pezzo come è facile immaginare, profondamente innamorato dell’Italia, autore di libri famosi come la “Storia di Roma nel medioevo” (Venezia, Antonelli, 1866) e “Lucrezia Borgia” (Firenze, Le Monnier, 1874), amico di personalità un tempo famose nel campo della ricerca, come Michele Amari, Luigi Tosti, Atto Vannucci, con i quali fu in corrispondenza, ma mal visto da Carducci che non ne apprezzava l’opera. Egli ebbe la fortuna di soggiornare in Italia in un periodo cruciale e potè sfruttare, condividendoli, gli entusiasmi postunitari che volevano dare al Paese una nuova identità. I viaggi in Puglia furono due e nel volume che li comprende, il quinto dopo i primi quattro, edito col titolo “Nelle Puglie” (Firenze, Barbera, 1882) è possibile ricostruire l’immagine del territorio come appariva a lui, fine osservatore e fedele testimone.

Le vicende storiche della Puglia, da lui conosciute mirabilmente come dimostrano le dettagliate descrizioni di personaggi, di genealogie, di eventi legati a luoghi apparentemente minori, forse talvolta appesantiscono la pagina, ma ciò che all’autore conta dimostrare è che senza la conoscenza della storia non ci può essere né futuro né sviluppo. Il riscatto viene dalle atmosfere elegantemente descritte, dalle campiture a pastello, dalle rievocazioni del periodo degli Svevi, quando Italia e Germania seguivano lo stesso imperatore, il grande Federico II, ed erano accomunate dallo stesso destino. La premessa è lo studio dell’antico, la passione forte per la “seconda Ellade”, per filosofi e scuole “la cui fama vive tuttora nel mondo”: si sente che questa nostra terra lo ha preso come poche altre, quasi quanto la stessa Roma, si sente che l’orgoglio federiciano lo conduce per strada e gli offre la mano nello scrutare paesaggi, nell’esaminare monumenti, nel descrivere campagne, castelli, ruderi magniloquenti.

L’itinerario muove da Benevento seguendo l’antica strada, Dentecane, Grottaminarda, Ariano Irpino, fino al ponte di Bovino e poi al fiume Ofanto, al tavoliere: percorso che una volta terrorizzava e consigliava al viaggiatore di far testamento prima di mettersi in viaggio. Ma Gregorovius scrive: «Dall’anno 1860 al 1890 questa regione montuosa al pari degli Abruzzi, brulicava di briganti: oggi è stata purgata di siffatto malore» elogiando la nuova monarchia. La Puglia gli si presenta con cento volti, con cento alternative, ed ecco perché anticamente si diceva “Le Puglie”: la divisione tradizionale in Daunia, Peucetia, Messapia o Iapigia, sussiste ancora, e il nostro Carmelo Bene amava sottolinearlo: «Non esiste la Puglia, ci sono le Puglie». Gregorovius sceglie una delle varie possibilità, influenzato dalla civiltà la cui nostalgia lo spinge: sono tutte “stelle doppie” e dietro ogni città si nasconde un fantasma da rievocare, perché il visibile, quello che resta, è solo un’ombra di quello che era: Foggia e Lucera, Manfredonia e Monte S.Angelo, Andria e Castel del Monte. L’entusiasmo è incontenibile: «I monumenti di epoche e civiltà antiche irradiavano una forza elettrizzante: è il magnetismo della storia». Ma la sua visione dei fatti e delle cose lo porta ad esprimere giudizi precisi, anche se amari, su problemi di attualità per il neonato Regno: la grande ricchezza del tavoliere di Puglia, granaio d’Italia per eccellenza, la gestione della pastorizia concentrata sulla mena delle pecore ed organizzata già in età aragonese, il complesso sistema dei tratturi, sono una realtà in crisi e ne profetizza, non senza dolersene, la prossima sparizione. Altrettanto nefasta la malapianta della camorra, stigmatizzata in poche battute attraverso la voce di un cocchiere sul tratto Manduria Taranto: «Anche qui, anche in queste pacifiche regioni, la camorra, la spaventevole associazione di facinorosi ribaldi, è giunta a distendere e intrecciare le sue fila, che nessuno pare abbia la forza o la voglie di spezzare», ricercato eufemismo per una piaga, come ben sappiamo, ancora da sanare.

Eppure questo libro, e forse proprio per queste acute osservazioni, fu messo all’Indice, perché offendevano i benpensanti la visione laica dell’autore, le radici luterane e la sua opinione sul Papato, il diffuso pangermanesimo, e ne scaturì un animato dibattito. Raffaele Mariano, allievo di Augusto Vera e paladino della scuola hegeliana di Napoli, che aveva tradotto il testo dal tedesco e che fu il compagno di viaggio di Gregorovius, era inviso per aver stilato una prefazione troppo lunga e sferzante nei confronti dei meridionali, quasi un pamphlet in cui si dice del sud tutto il male possibile. Si erge a difensore della regione il manduriano Giuseppe Gigli: le pagine sono false menzognere e maligne e riconducono ad un nostro difetto, congenito degli italiani, lasciare lo straniero libero di giudicare, accettare che venga a fare il professore in casa nostra, tollerare offese prive di fondamento. Fra i due interferiva l’esagerato patriottismo, demoni mai sopiti lottavano fra loro, perché certamente la questione di fondo è tra due modi di vedere. La polemica così non ebbe termine ed ancora se ne discute quando si ripercorre il suo viaggio in Puglia.

Si tratta in ogni caso di un gran bel libro ed il lettore ancora oggi non può che restare impressionato dalle descrizioni di paesaggi che s’imprimono nella memoria, dalla capacità di raccontare i fatti in maniera semplice e divulgativa, dall’acutezza dei giudizi espressi con esemplare obiettività. Di Andria lo colpisce la gente, “contadini e lavoratori dei campi, tutti dalle facce abbronzate, i più dai tratti ben formati, con le loro giubbe paesane di fustagno color cilestro” e non si fa sfuggire l’occasione di parlare della disfida di Barletta, rievocata da “un monumento in pietra che ha la forma di un sepolcro antico, terminato in cuspide”, che reca una lunga iscrizione in latino e si presenta al visitatore “sopra un terreno piano in mezzo a vigneti”. Poco dopo osserva con meraviglia i nostri truddi: «Sparse in molti punti della campagna si vedono casette a forma di cono (qui dette caselle) fatte con pietra calcarea, senza uso di calcina: servono per custodire gli attrezzi agricoli e per alloggiare i guardiani». Una dettagliata descrizione è riservata alla collezione di vasi appuli in terracotta nelle varianti a figure rosse o nere: benemerita la famiglia Jatta che ne salvò dalla distruzione una gran quantità, circa 1700, che oggi sono conservati nel Museo di Ruvo di Puglia, mentre altri giunsero a Napoli e a Monaco di Baviera “dove ancora oggi costituiscono una parte importante di quel museo”.

Le pagine più coinvolgenti sono riservate a Castel del Monte, il monumento simbolo di Federico II, che Gregorovius ammira e descrive non solo con precisione rigorosa ma con una passione che non ci si aspetterebbe in un filologo dell’architettura; ne deplora lo stato di abbandono, “si cercarono tesori nelle stanze, nel cortile nelle cisterne, le pareti vennero spogliate dei loro marmi preziosi e servì da nascondiglio ai briganti, solo la circostanza che apparteneva a un privato ne impedì la completa distruzione”, ma poi profeticamente si augura che il Municipio di Andria possa comprarlo. «Io scongiurai di provvedere alla conservazione del monumento, facendo partecipare all’acquisto anche la Provincia di Bari», conclude, e noi oggi possiamo goderne e visitandolo rivivere le magiche atmosfere del medioevo, le stesse che ispirarono a Umberto Eco pagine indimenticabili del suo “Nome della rosa”. Non mancano descrizioni dei cibi poveri ma succosi della tavola imbandita, “pesci eccellenti del vicino Adriatico, pezzi di carne di grandezze che ricordavano le omeriche, ghiottonerie appetitose di latticini delle Murge, olive e altri frutti, infine vini poderosi”, e a Taranto entrano in scena le cozze nere, la “famosa madreperla chiamata pinna” e naturalmente – immancabili – le tarantole. Nel Salento la fa da padrone il barocco ed è Gregorovius a chiamare Lecce “Firenze del sud”. Fa una giustificata digressione sulla toponomastica perché lo disturba, in quasi tutte le città visitate, l’intitolazione delle strade all’Unità, a Roma, a Garibaldi, a Vittorio Emanuele, mentre alla città-chiesa riserva un elogio perché “il cittadino può andare a zonzo con un sentimento di patriottico orgoglio, e seguire ai canti delle vie la cronaca dei suoi antenati da Malennio giù giù sin quasi al tempo suo”.

Mi fermo qui e non aggiungo altro per non togliere, a chi vorrà andare oltre, il piacere di scoprire da solo questa Puglia insolita, fascinosa, ammaliante, raccontata con uno stile personalissimo, in perfetto equilibrio tra conoscenza storica e fantasia creativa. L’avventura è finita, ma non posso sottrarmi ad una considerazione finale: questa nostra bellissima Puglia che solo apparentemente ci sembra di conoscere benissimo, merita uno sguardo diverso. Bisognerà guardarla – appena sarà possibile – con “occhi nuovi”, come diceva Proust, ed in questo sarà di grande aiuto Gregorovius. Intanto buona lettura e…buon viaggio.

A cura di Alessandro Laporta

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