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lunedì, Aprile 29, 2024

Medici pugliesi scrittori, Salvatore Sisinni

Salvatore Sisinni

Salvatore Sisinni è nato a Squinzano (LE) nel 1940. Laureato a Pisa in Medicina e Chirurgia, si è specializzato in Malattia nervose mentali e in Igiene e Medicina scolastica a Messina. Ha lavorato come neurologo nella provincia di Lecce, è stato primario di Psichiatria a Lecce. In pensione dal 1997 ha prestato la sua opera a titolo gratuito come psichiatra nella comunità Emmanuel di Lecce.


 

 

 L’Epilessia, dalle credenze religiose alle certezze della scienza

 L’epilessia è una malattia conosciuta sin dai tempi più remoti – e penso a Ippocrate (lV sec. a.C.) -, che la descrisse non meno bene dei moderni Trattati di neurologia. È una malattia di stretta competenza neurologica, anche se alcuni casi interessano anche lo psichiatra – e mi riferisco alle psicosi epilettiche ben descritte anche nei Trattati di psichiatria, oltre che, come ho detto, in quelli di neurologia.

È una malattia sociale, perché interessa una parte molto significativa della popolazione e anche perché comporta, a volte, lunghe assenze lavorative – io ne parlo, o, meglio, ne scrivo pur essendo convinto che non è la sede più adatta, rivolgendomi per lo più ai non addetti ai lavori – i neuropsichiatri ne sanno più di me – perché, nel mio piccolo, intendo fare un’opera di educazione alla salute, elevando il grado di conoscenza di una parte dei lettori sull’arte medica. Non so se ci riesco. La buona volontà c’è tutta, col relativo richiesto impegno.

D’altro canto, è anche un modo, credo, nobile per utilizzare le tante ore di tempo libero che l’età anagrafica, con i relativi acciacchi, da circa vent’anni, mi ha regalato. Ciò nonostante, ringrazio il Buon Dio che mi mantiene ancora in vita. Il pessimista Leopardi lo diceva in questo modo (è una parafrasi di un suo famoso Pensiero): la morte libera l’uomo dai dolori e dai piaceri, la vecchiezza, invece, porta con sé i dolori, non soddisfa i desideri e i piaceri. Ciò nonostante l’uomo preferisce alla morte la vecchiezza.

Ed è così, almeno per le persone che non stiano a misurare col bilancino del farmacista la qualità della vita. Che, pure, è molto importante.

Dopo questo lungo preambolo, entro in argomento, cioè sul tema oggetto di questo mio scritto: l’epilessia.

Ho già detto che la conosceva il Padre della Medicina, Ippocrate di Kos, che la desacralizzò, vale a dire da “male sacro” la riportò a malattia del cervello.

Si pensi, poi, che il Sommo Poeta, per avere scritto, nella sua Commedia, i famosi, memorabili versi dell’Inferno, riguardanti l’amore intenso, folle o quasi, ricambiato, di Paolo per Francesca (Canto V) che fra poco riporterò fedelmente, gli costò l’etichetta di epilettico, da parte di un pluri-docente di psichiatria, medicina legale e antropologia criminale, Cesare Lombroso, vissuto molti secoli dopo.

Ecco Dante: Mentre che l’un spirto questo disse, l’altro piangea, sì che di pietade io venni men così com’io morisse. E caddi come corpo morto cade. (vv. 139-142) Ma l’aver descritto così bene l’attacco epilettico, col verso caddi come corpo morto cade non vuol dire affatto che Dante scriveva per esperienza personale.

Dante era uno studioso di altissimo livello e di vastissima cultura, anche scientifica. Per cui conosceva senz’altro il pensiero di Cicerone che, molti secoli prima, nel suo De officiis, aveva definito l’epilessia o, meglio, l’attacco epilettico ictus fulminis, vale a dire colpo di fulmine, che Aurelio Vittore (IV sec. d.C.) tradusse in ictus
sanguinis
, che poi, in italiano, vuol dire letteralmente colpo di sangue.

A questo punto, mi viene in mente una locuzione popolare ascoltata durante la mia infanzia, ma ora non più usata, sicuramente, perché nel linguaggio comune non si usa più il dialetto, almeno nella maggior parte del grosso pubblico. Nel dialetto del mio paese, facente parte del Nord Salento, spesso, quando due litigavano, chi voleva prevalere sull’altro si esprimeva così: cu tte vene (che ti venga) nnu corpu te sangu
(un colpo di sangue) che era il massimo del castigo che una persona poteva augurare al suo avversario o proprio nemico. Che, poi, ictus sanguinis (colpo di sangue) vuol dire ictus cerebrale o colpo apoplettico, che può portare ad una invalidità permanente o, nel peggiore dei casi, alla morte in pochi giorni.

Ed ora veniamo alle credenze popolari, destituite, ovviamente, di ogni valore scientifico. Credenze che, purtroppo, tuttora esistono, nonostante i mirabolanti progressi della Scienza e, nel nostro caso, della Medicina.

Le credenze popolari non sono radicate ancora nelle terre del nostro Meridione ma si ritrovano dappertutto. A tale riguardo, mi piace riportare quanto scrive Wolf Dorn, un logopedista per molti anni per la terapia riabilitativa di pazienti psichiatrici, del suo romanzo – bestseller – dal titolo La psichiatra così scrive, all’inizio del Prologo: «Certe leggende popolari di luoghi che attirano il male, luoghi che sono stati teatro di tante tragedie, come se fossero affamati di terribili disgrazie, di ruderi della vecchia fattoria Sallinger erano uno di quei luoghi, Herman Talbach, ne era assolutamente convinto. Tutti in paese la pensavano come lui. C’era persino chi sosteneva che avvicinarsi troppo a quelle rovine rendeva pazzi».

È vero, è un romanzo, quello di Wolf Dorn, ma nel romanzo, di solito, si inventano o si cambiano i nomi dei personaggi, ma il contesto, i luoghi, le leggende, le credenze che li accompagnano sono veri.

D’altro canto lo dice lo stesso autore del romanzo, alla fine dello stesso nell’Avvertenza così: «La leggenda della fattoria dei Sallinger si basa su un fatto realmente accaduto. Per tutelare le vittime, i fatti sono stati modificati, così come i nomi e le località». Dalla Germania, dove si svolgeva la storia della fattoria dei Sallinger, torniamo nel nostro Paese.

Una delle tante credenze – ma chissà quante ce ne sono nella Storia umana – risale al tempo del Sommo Poeta e della sua immortale Commedia. Riguarda, però, un’altra malattia e non l’epilessia. Ma il significato che l’accompagna è uguale.

È il quadro di un maleficio di avvelenamento come da morso viperino, caratterizzato dall’irrigidimento dei muscoli dell’estremità (piè fermati) e dallo sbadiglio che precorre l’intorpidimento di tutte le facoltà con sonnolenza o con delirio di tipo febbrile – così scrive Giorgio Cosmacini nel suo libro Dante e l’arte medica (Pantarei editore, Sesto San Giovanni – MI, 2021).

Io che, per mestiere, di epilettici ne ho visti e curati tanti, mi permetto – forse oso troppo – di accostare le manifestazioni cliniche del maleficio di cui parla Dante a due forme cliniche della malattia epilettica: le prime (l’irrigidimento dei muscoli delle estremità) a quello che caratterizza l’inizio dell’attacco epilettico (al quale segue la classica convulsione) mentre lo sbadiglio e l’intorpidimento di tutte le facoltà alla varietà denominata epilessia temporale, nella quale manca la convulsione e la perdita di coscienza non è totale ma parziale, con qualche gesticolazione senza senso.

A tale riguardo il collega Cosmacini così testualmente si esprime: «Dante vede – nel Canto XXV dell’Inferno – “l’un di lor” che è il Donati, uomo minuto “livido e nero come gran di pepe” (v. 84), trafitto e trasmutato per metamorfosi – l’influsso di Ovidio è sempre presente – in un “serpentello acceso”». (v. 83).

Al riguardo dice: Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse; anzi, co’ piè fermati, sbadigliava pur come sonno o febbre l’assalisse. (vv. 88-90)

Tornando all’epilessia, argomento del quale mi sto occupando, una credenza popolare, molto diffusa nel Salento, vuole che l’epilettico o l’epilettica siano stati morsicato o morsicata da un ragno e che le loro crisi ne siano la conseguenza inevitabile. Per tale motivo, ancora oggi, nonostante i prodigiosi progressi della Medicina, molti soggetti epilettici si recano in un paese del Salento, a pochi chilometri da Lecce, San Donato, per pregare il Santo omonimo nel giorno della sua festa. E lo fanno in un modo singolare – ad essere sincero non li ho visti io ma me lo ha raccontato un mio collega, un epilettologo passato da pochi anni a miglior vita – perché, giunti all’ingresso della Chiesa si inginocchiano e, in quella posizione molto scomoda, procedono fino ai piedi dell’altare del Santo, per recitare le loro preghiere, da ferventi credenti e per invocare la guarigione dalla loro malattia, che, da noi, è denominata anche malattia di San Donato (nel dialetto locale, male te Santu Tunatu), denominazione molto significativa.

Avviandomi alla conclusione, mi piace sottolineare il concetto che la malattia epilettica, oggi, si avvale di molti medicamenti abbastanza efficaci che, presi continuativamente, sotto la guida del medico neurologo, possono portare alla scomparsa prolungata e, a volte, anche definitiva delle tanto temute crisi. Senza nulla togliere al Divino, a Dio e ai Santi che possono essere sempre invocati a protezione della nostra salute fisica e mentale. Io, purtroppo, l’ho dovuto fare più volte nella mia lunga e travagliata vita di paziente – e continuo a farlo ogni sera, prima di addormentarmi e la mattina presto, al risveglio -. Infatti, per chi crede, ovviamente, la Fede e la preghiera, che la testimonia, è un grande conforto, ovvero un porto sicuro nel quale rifugiarsi quando la tempesta si annuncia e, ancor di più, quando è in atto.

Dopo questo lungo articolo che – lo ripeto – ha il solo scopo divulgativo (le malattie, se si conoscono si curano), rispettando nel contempo il rigore scientifico.

A questo punto mi viene in mente un episodio della mia lunga attività professionale, abbastanza significativo.

 Una notte di quasi cinquant’anni fa, fui chiamato d’urgenza in Ospedale da una delle mie infermiere di turno perché era stata ricoverata d’urgenza – oggi si direbbe in codice rosso – una giovane donna in coma con crisi convulsive generalizzate subentranti, vale a dire che mentre stava per finire una crisi l’altra si presentava. Ovviamente, mi precipitati, a bordo della mia macchina una utilitaria Fiat. La diagnosi si faceva a vista: Stato di male epilettico. La prognosi quoad vitam, come si dice in gergo medico, era molto riservata. Che cosa era successo? È quasi incredibile al giorno d’oggi.

 I familiari della malcapitata paziente, che pure erano professionisti affermati, laureati, però non medici – sarebbe stato il colmo – volendo seguire il consiglio di qualche loro collega, nel desiderio comprensibile di liberare del tutto la paziente (che non poteva decidere da sé, in quanto, oltre ad essere epilettica dalla nascita, era anche una insufficiente mentale di lieve-medio grado – si pensi, suonava il pianoforte in maniera invidiabile) si affidarono ciecamente alle cure di un monaco erborista, il quale, imprudentemente e negligentemente le aveva sospeso bruscamente le cure, sostituendole con un intruglio di erbe da lui preparato in convento. Avesse aggiunto questo intruglio alle cure in atto, allora quelle a disposizione – oggi il neurologo ne ha tante più efficaci e con meno effetti collaterali -, vale a dire alla dintoina e al barbiturico, non sarebbe successo nulla alla paziente (ai familiari, cosa del resto irrilevante, data la loro posizione sociale, sarebbe costato soltanto l’importo dell’intruglio e la parcella del religioso erborista).

Morale della favola: bisogna avere fiducia nella Scienza, prima di seguire le credenze popolari, l’erboristeria può ottenere anche qualche buon risultato nei confronti di chi l’accetta e, quindi, ci crede: è innegabile l’effetto di tante piante medicinali. Sarebbe, però, un gravissimo errore non saperle saggiamente consigliare. Per fortuna la paziente uscì fuori dallo stato di male epilettico, anche se non guarì dalla sua malattia.

La mia grande soddisfazione, oltre ai ringraziamenti e alla riconoscenza dei familiari, che un medico dovrebbe apprezzare più del vile denaro, mi riempiva di gioia quando squillava il mio telefono fisso e riconoscevo subito la voce inimitabile della paziente epilettica e insufficiente mentale, che io avevo strappato alla morte. Queste sono le gioie della professione medica.

di Gioia Catamo

Pubblicato il 11 dicembre 2022 alle ore 09:30

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