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Quando i nomi suscitano emozioni

Dolci natalizi, una miniera di profumi, tradizioni e culture diverse

Il cibo è ricchezza verbale, colore, è codificato attraverso parole che rievocano profumi, gusti, sapori.  Ma è anche, identità, cultura, tradizione. Tullio De Mauro nel suo Minisemantica dei linguaggi non verbali e delle lingue (1997 [I ed. 1982]) aveva definito le parole “scrigni in cui si sedimentano usanze, costumi, credenze, modi di operare e di produrre idee religiose, morali, intellettuali. [….] Solo la parola consente quel gioco perenne di persistenza tradizionale e di innovazione, di autoctonia e di mescolanza che fa, anzi è una cultura” (p. 155-56).

Ne sono rappresentazioni le denominazioni dei cibi. Si pensi per esempio a quelle dei dolci tipici del Natale che allietano le tavole della nostra Puglia e che prendono il nome o dalla forma o dalle proprietà essenziali degli ingredienti con cui sono realizzati e talvolta, invece, dalle tecniche e dalle procedure di lavorazione.

Partiamo da quelli il cui nome deriva dalla forma: i purcidduzzi (o purcedduzzi e relative varianti fonetiche areali). Nel Vocabolario dei Dialetti Salentini (1976), Gerhard Rohlfs, rinviando alla voce purcieddu, li definisce «pezzettini di pasta tagliati a muso di porco, che dopo fritti s’intridono con miele». Le spiegazioni che fanno risalire la denominazione di questi dolci al porco sono alquanto fantasiose. Una fra tante è quella che si riferisce all’antica usanza di mangiare i purcidduzzi sino al 17 gennaio, il giorno dedicato a

I purciddhruzzi salentini

Sant’Antonio Abate, protettore degli animali in genere, ma soprattutto dei maiali: com’è noto, nell’iconografia popolare il Santo viene raffigurato con al fianco un maialino. Secondo un’altra interpretazione, però, il nome deriverebbe dalla tecnica di preparazione, che rinvia a quella difensiva dell’onisco (meglio conosciuto come porcellino di terra o porcellino di sant’Antonio). Questi, se toccato, si arrotola a palla, mostrando sul dorso rigature che possono assimilarsi a quelle che, anticamente, il pettine del telaio, lasciava sui pezzettini di pasta utilizzati per la preparazione dei purcidduzzi. Alla forma tondeggiante, invece, è da attribuire la denominazione – diffusa nel barese, ed in generale, in tutta l’area meridionale – struffuli, derivata, secondo i più, dal greco στρόγγυλος (stróngylos), che vuol dire appunto ‘rotondo’.

Il termine sannacchiudere, diffuso nel tarantino, è invece un nome che non è riferibile né alla forma, né agli ingredienti, né alle fasi della lavorazione: la denominazione sarebbe dovuta al fatto che una volta preparati in vista del Natale le massaie erano costrette a nasconderli per evitare che fossero consumati anzitempo.

I mustazzoli (e le altre diverse forme fonetiche presenti nella regione), ossia i dolci a forma di rombo diffusi anche in Sicilia e in Calabria, invece, prendono il nome dagli ingredienti: probabilmente di origine araba, derivano il nome dal latino MUSTUM ‘mosto’ o da MUSTACE‘varietà di alloro’ (pianta simile all’alloro, citata da Plinio nella sua “Storia naturale” e che era usata per tradizione durante festeggiamenti nuziali e durante le feste di Saturno già nel periodo romano) o da MUSTACEUM ‘focaccia nuziale fatta con farina, mosto, anice, foglie di alloro e cotta su foglie di alloro’. Luigi Accattatis nel suo Vocabolario del dialetto calabrese del 1977 alla voce mustazzuòlu o mostacciolo riferiva di un “dolce introdotto dagli arabi e che si fa di fior di farina impastata con miele o con vino cotto, condito di varie spezie e cotto in forno. Il popolo usa questo specie berlingozzo, più che altre occasioni nei maritaggi.”

Mustazzoli

Alla forma e al colore devono il loro nome le castagnedde ‘castagnelle’, delizie, appunto, simili a piccole castagne, a base di mandorle, che si gustano in alcune zone del barese durante il periodo di Natale.

La cupeta, variante del torrone, deriverebbe, secondo alcuni, il suo nome dal latino cuppedia ‘ghiottoneria’ perché fatta di zucchero. Nel Dizionario etimologico italiano (1968) di Carlo Battisti e Giovanni Alessio, alla voce copèta (coppèta f.), invece, troviamo scritto: «dolce fatto di mandorle e pistacchi o noci e miele cotto, detto anche copata o cupata, in arabo “qubbàita”, sorta di pasta con zucchero, mandorle e pistacchi». La “qybbaita”, ‘il dolce a base di mandorla’, durante il lungo periodo di dominazione araba, sarebbe passato in Sicilia, dove si chiama tuttora cubbaita. Da lì giunse anche in Puglia, dove è conosciuta come cupeta.

Le cartiddate, strisce della larghezza di circa due centimetri, che ad ogni 3-4 centimetri vengono unite ed avvolte su se stesse, formando una rosa che, secondo alcuni ricorderebbero le fasce di Gesù Bambino. Secondo altri, invece, la forma rievocherebbe i rosoni delle chiese barocche e, secondo altri ancora, la forma della chiocciola di terra. Il nome per alcuni sarebbe un deverbale, dal salentino carteddare‘arrotolare’ e procederebbe, anche in questo caso dalla forma. Rohlfs, nel suo Vocabolario, suggerisce di confrontare il termine con il calabrese incartellate ‘pasta di farina spianata e ridotta a strisce’ e con il siciliano cartedda ‘cesta’ per la forma simile ad un intreccio. Nella zona del Gargano questi dolci, invece, vengono chiamati crustoli, dal latino CRUSTULUM ‘biscotto ricoperto di una crosta dolce, ciambella’ passato, poi ad indicare, genericamente un dolcetto.

Annarita Miglietta

La conservazione dei nomi dialettali di alcuni dolci tipici natalizi è la testimonianza di metafore che ormai risultano opache (o morte): risalenti a molto tempo fa, affondano le proprie radici nelle simbologie contadina, cultuale, religiosa che si tramandano di generazione in generazione, ed entrate stabilmente nell’uso, i parlanti non riescono più a riconoscerle. Ma è proprio grazie alla lealtà e alla vitalità linguistico-culturale della regione Puglia e della sub-regione salentina che, almeno per questi dolci, la logica standardizzante e globalizzante dei mercati, che hanno alterato e stravolto lo stile del consumo dei dolci, non ha trovato ancora terreno fertile. Se ne garantisce e se ne preserva così, nel corso del tempo, la fedele riproduzione della forma prototipica di un’ampia casistica di prodotti dolciari tradizionali, almeno per festività importanti come il Natale, accanto ai prodotti simbolo innovativi e commerciali quali per esempio panettoni e torroni. La loro resistenza sulle tavole è anche segno di vitalità linguistica, oltre che culturale e la pluralità delle diversità e specificità – anche in questo settore – è sicuramente ricchezza nella/della globalità.

di Annarita Miglietta

Pubblicato il 11 dicembre 2022 alle ore 09:58

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