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domenica, Aprile 28, 2024

Il tempo, la memoria, l’identità – di Antonello Nicolaci

Il nostro cervello dispone di una funzione che ci permette di entrare in relazione con il Tempo, ed è la Memoria. Ricordare gli avvenimenti che ci sono accaduti, ed ordinarli nella loro sequenza cronologica, ha evidentemente la finalità di apprendere le esperienze gratificanti, per poterle utilizzare e replicare, e di riconoscere quelle sgradevoli o errate, per evitarle. La specie umana sembra voler disattendere, purtroppo, l’uso teleologico di questa facoltà, perseverando nel ripetere, come ci è dato vedere dalla cronaca quotidiana e dalla storia dei nostri giorni, i medesimi nefasti errori. Affinché un evento o un dato possa essere ricordato, è necessario che venga registrato, conservato in un archivio ordinato, e che possa essere ritrovato al momento opportuno. Esiste un tipo di memoria che va “stimolata” mediante meccanismi di tipo “gratificazione-frustrazione” – processo che va sotto il nome di “apprendimento” – ed è la memoria conativa (o scolastica): mandiamo a memoria la data di nascita di Giuseppe Garibaldi per avere un buon voto a scuola o la lode del genitore (rinforzo positivo), o per evitare di essere sgridati o puniti (rinforzo negativo). Naturalmente le strategie della gratificazione sono molto più complesse (“mi impegno negli studi universitari per avere un lavoro appagante”). Tale tipo di memorizzazione richiede, oltre a un determinato grado di attenzione, anche una salda motivazione ed un importante impegno di volontà. C’è poi un altro tipo di memoria, quella spontanea (o biografica), per la quale non vi è bisogno di alcun impegno conativo, ma che si sedimenta nel nostro cervello passivamente, come su di un registratore tenuto costantemente acceso; necessita cioè, soltanto, dello stato di Veglia (che non stiamo dormendo, o che non siamo in coma): “stamattina al mercato ho incontrato tuo fratello”.

Le strutture anatomiche del cervello implicate nella memoria sono numerose e complesse, tra di esse l’ippocampo, situato nella parte mesiale del lobo temporale, riveste un ruolo chiave (e poi: talamo, amigdala, lobo limbico, corpi mammillari, ecc -Papez, 1937-), ed esse sono collegate con l’intera corteccia cerebrale. C’è bisogno, quindi, di una lesione molto estesa e bilaterale (o lesioni piccole ma molto numerose) di tali strutture per avere disturbi della memoria di una certa rilevanza.

Qual è il substrato strutturale che codifica l’unità di memoria (engramma)? Dopo la scoperta del DNA, molecola che codifica tutti i tratti (genetici) caratteristici di ogni singolo individuo, si pensò che, per analogia, anche i ricordi fossero trasformati in molecole chimiche di DNA, o RNA, o di proteine varie; si pensò cioè che ogni unità di memoria fosse costituita da una molecola, o una porzione di essa, opportunamente depositata in un archivio. Ma tutti i tentativi di trasferire un qualsivoglia engramma da un individuo (di animali “inferiori”) ad un altro, estraendo dal primo ed iniettando nel secondo vari costituenti di materiale cerebrale, si rivelarono infruttuosi.

I modelli più convincenti, allo stato attuale delle conoscenze, distinguono meccanismi differenti per la memoria “a breve termine” (durata da pochi minuti a qualche ora) e per la memoria “a lungo termine” (in teoria permanente). Il primo tipo di memoria sarebbe sostenuto da fenomeni esclusivamente elettrici: l’engramma, rappresentato da un certo impulso elettrico, o da un treno di impulsi, si riverbera (gira ripetutamente) per qualche tempo (minuti o ore) in alcuni particolari circuiti (circoli chiusi) di neuroni, probabilmente situati nel talamo. È sufficiente un attimo di “disattenzione” perché tale traccia, ancora non strutturata, vada perduta (è quanto succede ai soggetti ansiosi o depressi, che abbiano la mente occupata dalle loro preoccupazioni, o semplicemente alle persone con “troppe cose cui pensare”). La traccia mnesica a lungo termine dipenderebbe, invece, da modificazioni plastiche e strutturali permanenti, e si baserebbe sulla formazione di nuove sinapsi tra neuroni. Le sinapsi sono i punti di contatto tra due neuroni o i loro prolungamenti, e permettono il passaggio dell’impulso elettrico dall’uno all’altro. Considerando che il nostro cervello è costituito da poco meno di 100 miliardi di neuroni (alla nascita), e che ognuno di essi entra in collegamento con gli altri mediante un numero elevatissimo di sinapsi, – stimate essere, all’incirca, 1.000 trilioni in tutto – si può avere un’idea di quanto complessa sia la nostra “rete” neuronale. In maniera approssimativa possiamo immaginare che per ogni engramma conservato permanentemente, si formi una o più nuove sinapsi tra neuroni, che aprano, allo stimolo elettrico, una nuova strada da percorrere (come un nuovo scambio ferroviario in una rete già intricatissima di collegamenti tra i vari binari); percorrendo questa nuova serie di deviazioni e di scarti il nuovo ricordo verrebbe memorizzato e ripercorrendo la stessa via verrebbe richiamato alla conoscenza.

Il ricordo sarebbe, quindi, una determinata rete neurale che si attiva elettricamente secondo una specifica sequenza. Quanto più una di queste “vie” viene “percorsa”, tanto più il relativo engramma si rafforza (perciò i ricordi remoti, richiamati più e più volte nel corso della vita, sono i più resistenti). All’opposto, se qualcuna di queste “vie” non viene più praticata (come fosse un “binario morto”), il relativo ricordo può svanire nel tempo.

La formazione delle nuove sinapsi che servono a consolidare la memoria avviene principalmente durante la fase REM (rapid eye movement) del sonno, che costituisce pertanto un momento chiave nei processi di memorizzazione. Durante esso, non solo si creerebbero questi nuovi collegamenti, substrato materiale del nuovo ricordo, ma si selezionerebbero anche gli engrammi da conservare a lungo, eliminando quelli da scartare. Infatti il problema di ogni buon archivista, è proprio quello di eliminare tutto ciò che viene ritenuto inutile, poco significativo, superfluo. Questo per semplici ragioni di economia: conservare tutto, sarebbe veramente troppo dispendioso, e renderebbe oltretutto più difficile il reperimento di ciò che serve realmente. Per inciso: durante il sonno, ed in particolare durante la fase REM di esso, il consumo di ossigeno e di glucosio da parte del cervello è ben più alto rispetto a quello dello stato di Veglia: altro che riposo!

I ricordi (sopratutto quelli relativi alla memoria biografica) possono subire poi, nel tempo, un processo di ulteriore selezione, rimodulazione, variazione ed elaborazione, talvolta eliminazione -rimozione-, sotto l’influenza di fattori esistenziali ed emotivi vari. Questo divenne campo di indagine tramite le tecniche dell’ipnosi, utilizzate per far riemergere i ricordi cancellati -censurati- o distorti (paramnesie) a seguito di eventi psichici traumatici. In seguito, settore di studio (assieme all’interpretazione dei sogni) dell’antesignano della psicanalisi, Sigmund Freud.

Ma questa è un’altra storia.

Esistono vari tipi di memoria: quella verbale (ricordare il nome degli oggetti e delle persone), uditiva (e, tra queste, la memoria musicale è forse la più tenace di tutte: è facile ricordare, pure a distanza di svariati decenni, una melodia, o una filastrocca, e su di essa, anche le parole che l’accompagnavano), quella visiva (ad es: dei volti), quella dei luoghi (topografica), quella semantica (anch’essa molto tenace), quella operativa (andare in bicicletta, nuotare), degli odori, ecc. Per ognuna di esse, verosimilmente, è prevista una differente sede di archiviazione nella corteccia del nostro cervello.

In clinica ci possono essere disturbi della memoria per difetto, i più numerosi (le amnesia), per eccesso (le ipermnesie), o per alterzione del contenuto (dismnesie). Pico della Mirandola è l’esempio proverbiale di una memoria eccezionale, e non costituisce certo motivo di preoccupazione se un determinato soggetto manifesti una particolare attitudine a ricordare quantità enormi di dati. Tuttavia alcune patologie psichiatriche (autismo, fase maniacale del disturbo bipolare, ecc) si possono accompagnare alla capacità di ricordare in maniera esagerata (particolari minuziosi ed insignificanti di un evento o di una intera giornata, oppure innumerevoli targhe automobilistiche o numeri telefonici).

Tra le dismnesie ci sono delle sensazioni (vere e proprie “allucinazioni mnesiche”) che fanno parte dell’esperienza comune senza essere significative di malattia. Chi di noi non ha mai sperimentato un déjà-vu: la netta sensazione di familiarità in una scena o in un luogo ove sicuramente non siamo mai stati prima d’allora?, o del suo opposto (jamais-vu)? oppure di aver avuto un “falso riconoscimento”? Tuttavia alcuni di questi fenomeni possono avere, raramente, un significato patologico: alcuni tipi di crisi epilettiche (“parziali complesse”) possono manifestarsi, infatti, con sintomi similari. La perdita progressiva della memoria è evento biologico normale correlato all’età (in relazione al progressivo depauperamento del numero dei nostri neuroni e delle loro sinapsi). Soltanto quando diventa di entità tale da rendere impossibile la vita autonoma e di relazione (e quando si accompagna ad altri sintomi: la sola perdita della memoria non consente una diagnosi di Alzheimer), si parla di “Demenza”.

In clinica si riconoscono oltre cento tipi o cause differenti di demenza. Le demenze “degenerative” tra cui la più conosciuta è la malattia di Alzheimer, costituiscono la buona metà di esse. Sono dovute ad una eccessiva e prematura morte delle cellule nervose, talvolta determinata dall’accumulo di alcune proteine al loro interno. In un 45% circa dei casi la demenza è dovuta, invece, a disturbi della circolazione (demenza vascolare): un ictus, o, più frequentemente, numerosi piccoli infarti cerebrali. La restante parte delle demenze (5% ca) dipendono da cause prevenibili, ed almeno in parte modificabili; intossicazioni croniche da alcool, da stupefacenti, da determinati farmaci, da metalli pesanti, da solventi; oppure da ipotiroidismo non trattato, da ipovitaminosi, da idrocefalo, da malattie infettive -lue, meningite-, dalle apnee notturne, o da traumi, tumori, ecc. È sicuramente possibile ridurre l’incidenza di tali ultime agendo sulla correzione dei vari fattori di rischio, primo tra tutti, il rischio cardiovascolare. La ricerca nel settore della terapia della demenza è campo d’investimento privilegiato dall’industria farmaceutica, probabilmente destinato a dare importanti frutti (assieme a grandiosi ritorni economici) in un futuro speriamo prossimo. Tuttavia le terapie finora entrate nell’uso clinico si limitano a poche molecole che hanno il comune effetto di aumentare la concentrazione cerebrale dell’acetilcolina, neurotrasmettitore chimico (non è il solo, per la verità) coinvolto nel funzionamento delle sinapsi dei circuiti della memoria. Ma la carenza di aceticolina, accertata nel cervello del paziente con demenza, non è la causa del processo patologico, ma soltanto un suo epifenomeno. I risultati, pertanto, seppur apprezzabili, si limitano al rallentamento della progressione del processo degenerativo, comunque inarrestabile, ed ancor più, irreversibile.

È importante tenere presente che anche la memoria, come qualunque altra funzione dell’organismo, ha bisogno di costante allenamento. È comodo, ma assolutamente deleterio, delegare al nostro smart-phone, di cui il nostro cervello sembra essere divenuto ormai una “periferica”, anche le più banali funzioni mnesiche: non siamo più abituati a memorizzare un indirizzo, un numero telefonico, o a fare a mente anche la più banale delle addizioni. Come è noto, i neuroni non possono più aumentare una volta che siamo venuti al mondo: il loro numero potrà soltanto diminuire giorno dopo giorno, spontaneamente o a causa del sovrapporsi dei vari eventi patologici; noi possiamo invece produrre sempre nuove sinapsi, tenendo vivo ed interessato il nostro cervello, impegnandolo in attività mnemoniche, sociali, fisiche, culturali: quante più sinapsi produciamo nel corso della nostra esistenza tanto più a lungo durerà il nostro “tesoretto” di memorie, cioè di vita consapevole.

Molti di noi hanno avuto l’esperienza di assistere un familiare con demenza: la perdita dell’autonomia, il mancato riconoscimento dei figli e delle persone care, le bizzarrie del comportamento, ma sopratutto il venir meno della memoria sono fattori devastanti. Un Alzheimer è un soggetto che vive al presente: – ora mangia, ora dorme, ora sorride senza ragione -, che ha perduto la sua identità perché ha smarrito il suo passato. Non ha più continuità con la propria esistenza.

La nostra Identità (coscienza del sé) si costituisce a partire dall’infanzia e dall’adolescenza, e si struttura mediante la sedimentazione di tutte le esperienze che si sovrappongono nel corso degli anni. Ricordare la propria vita trascorsa è ciò che costituisce l’Identità di ognuno di noi e che ci identifica nel rapporto col prossimo. Senza memoria di ciò che ho fatto, delle esperienze che ho avuto, delle persone che ho amato e che mi hanno amato, degli ideali in cui ho creduto, delle convinzioni che ho maturato, dei libri che ho letto, della musica che ho ascoltato, del mare che mi ha bagnato, delle emozioni che ho vissuto, insomma, sono nulla, non esisto come Persona, né per me stesso, né per gli altri. Così come, del resto, è la memoria collettiva che costituisce l’identità di una comunità e fa di un insieme di persone un Popolo, soggetto consapevole della propria storia.

Alla Memoria eterna, quella che sopravvive alla morte e sconfigge il Tempo, anelavano gli Eroi omerici quando ricercavano la gloria sui polverosi campi di battaglia. Essi sarebbero vissuti, e vivono tuttora, difatti, nel ricordo tramandato alle generazioni future. La loro Identità non è andata smarrita. E, d’altra parte, quale condanna era più tremenda ed ignominiosa, -ancor più della morte-, che la “damnatio memoriae” con la quale si cancellava non solo la vita di un avversario politico, ma sopratutto il ricordo della sua Esistenza?

di Antonello Nicolaci

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