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giovedì, Marzo 28, 2024

Un porto sommerso a Le Cesine

 di Antonella Antonazzo



Le recenti ricerche archeologiche tra San Cataldo e Le Cesine

“Il porto ritrovato” è il titolo della conferenza svoltasi lo scorso 19 giugno presso il Museo Castromediano di Lecce nell’ambito delle Giornate Europee dell’Archeologia per presentare i risultati delle ricerche archeologiche condotte nel 2020-2021 lungo il tratto di costa compreso tra San Cataldo e Le Cesine (Lecce) dal Dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento (autorizzazione MIBACT_SABAP-LE|11/09/2020|0016326-P|07.04/150/2019).

La cosiddetta “Chiesa sommersa” (foto da drone F. Perrone)

Le ricerche, dirette da Rita Auriemma, hanno visto impegnato il team del Dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento (Antonella Antonazzo, Luigi Coluccia, Michela Rugge, Fernando Zongolo, Melissa Mele, Andrea Mazzarulli), affiancato da quello del Politecnico di Torino (Laboratorio di Geomatica e Laboratorio di Ingegneria Ambientale: Antonia Spanò, Filiberto Chiabrando, Alessio Calantropio, Paolo Felice Maschio, Andrea Lingua) per il rilevamento topografico e fotogrammetrico delle evidenze emerse e sommerse e dei contesti costieri; il gruppo di lavoro è stato inoltre coadiuvato dal generoso ausilio di Mario Congedo, della Riserva Naturale dello Stato Le Cesine (Direttore Giuseppe De Matteis), del Corpo Forestale dello Stato (Comandante Leonardo Antonaci), dell’Agenzia Regionale attività Irrigue e Forestali di Lecce – ARIF, della Capitaneria di Porto di San Cataldo (Comandante Giovanni Leva), della ditta Angelo Colucci per tutte le operazioni e il supporto tecnico e da Roberto Perrone per la documentazione foto-video con drone. La campagna di ricognizione diretta, effettuata sia a terra sia sott’acqua, e di ricognizione strumentalecondotta con aeromobile a pilotaggio remoto (UAV/drone) ha consentito di riconoscere una serie di evidenze archeologiche già note, ma soprattutto di effettuare una nuova scoperta, di cui proprio il titolo di presentazione riassume in sé tutta l’eccezionalità. Nell’area dell’Edificio Idrovoro della Riforma Agraria, in località “Posto San Giovanni”, al margine settentrionale dell’area umida di Le Cesine, infatti, erano già stati documentati (ed editi in ultimo da Giuseppe Ceraudo e Francesco Esposito) allineamenti murari connessi a depositi di età romana tardorepubblicana, una serie di vasche scavate nella roccia (che trovano riscontro cartografico nella località denominata “Conche del sale”), la struttura comunemente nota come “Chiesa sommersa” e un’altra struttura sommersa, posizionata più o meno in linea con la precedente ma più a sud. Oltre a precisare le conoscenze sulle evidenze già note, le ricerche 2020-2021 hanno permesso soprattutto di individuare nelle immediate vicinanze dell’Edificio Idrovoro altre strutture sommerse, in gran parte di età romana, che sembrano connesse a quelle precedentemente citate e che restituiscono una visione ben più complessa dell’antico scalo portuale di Lupiae.

Un grande blocco parallelepipedo con parte sagomata, probabile bitta in crollo, dalla cortina meridionale del molo (foto Università del Salento)

La cosiddetta “Chiesa sommersa”, che si trova in mare all’altezza dell’impianto idrovoro a 150 m dalla riva su uno sperone roccioso che si erge su un fondale di circa 5 m, mostra una struttura intagliata nel banco roccioso, ma conserva anche resti di muri realizzati in conglomerato cementizio, le cui creste si trovano a -0.50 m. La pianta, rettangolare, si articola in tre grandi ambienti, anch’essi rettangolari e in parte lacunosi per effetto dell’azione erosiva del mare, che oggi hanno il fondo a -1/-1.5 m di profondità. Questi elementi hanno portato quindi a rivedere la sua originaria identificazione con una peschiera: sulla base dei dati noti riguardo alle variazioni relative del livello del mare (per le quali lungo la costa della Puglia meridionale esistono una serie di markers archeologici), infatti, in età romana e anche in precedenza le presunte vasche della peschiera sarebbero state emerse. Anche la seconda struttura è ubicata in prossimità dello stesso impianto idrovoro, a circa 100 m a sud di esso, a 125 m dalla riva e in linea con la “Chiesa sommersa”. È costituita da allineamenti, paralleli e perpendicolari tra loro, di blocchi in calcarenite locale che si trovano a una profondità media di -3.5 m e occupano, per quanto visibile, un’area rettangolare di 24×30 m, che potrebbe però estendersi molto di più, poiché alcuni filari di blocchi sembrano continuare sotto un notevole apporto sabbioso.

La struttura rettangolare in filari paralleli di blocchi già nota (foto da drone F. Perrone)

Sia la posizione sia le caratteristiche tipologiche e tecniche di entrambe le strutture mostrano un’evidente affinità con l’imponente fondazione di un molo scoperta nel 2020 nel corso delle ricerche dirette da Rita Auriemma.

Quest’opera considerevole, che si sviluppa con orientamento est/nord-est, spicca a 15 m circa di distanza dalla costa, in corrispondenza della verosimile riva antica, a sud-est del canale di sbocco dell’impianto idrovoro. La struttura è delimitata da due allineamenti paralleli di grossi blocchi parallelepipedi (150-300x65x30 cm) che costituiscono le due cortine esterne del molo, per una larghezza complessiva di circa 8 m e una lunghezza di almeno 90 m, per quanto visibile al momento delle indagini.

Il corpo della fondazione è realizzato con linee affiancate di blocchi paralleli che si susseguono e nel tratto più esterno, corrispondente agli ultimi 25 m, due file giustapposte di blocchi creano una specie di “spina” centrale, con lo stesso orientamento di quello generale dell’opera muraria. In diversi casi i blocchi appaiono ruotati, spostati o mancanti per effetto dell’energia ambientale e ciò ha consentito di verificare che i blocchi della fondazione sono messi in opera su uno strato di livellamento in pietrame, che poggia su un deposito naturale di limo argilloso, analogo a quello delle paludi retrostanti. In alcuni punti si conservano anche due o più filari sovrapposti, ma la forza disgregatrice del moto ondoso appare evidente, data l’ampia dispersione dei blocchi in crollo presenti all’esterno di entrambi i paramenti.

Il molo in tecnica a cassone scoperto nel 2020 (foto da drone F. Perrone)

La tecnica di costruzione del molo sembra essere quella tipica delle strutture di approdo dell’Adriatico e di altre aree del Mediterraneo, soprattutto orientale, realizzate in opera a cassone o a vespaio, con paramenti in opera quadrata in filari sovrapposti di grossi blocchi parallelepipedi in calcarenite locale, solitamente contenenti un nucleo di pietrame vario, talvolta rinforzato con setti interni per la distribuzione delle spinte.

Una particolarità è certamente rappresentata dalla presenza, ridosso della cortina meridionale, di grandi blocchi parallelepipedi con un lato sagomato a cilindro che si susseguono a intervalli piuttosto regolari: la presenza delle due protuberanze cilindriche ha suggerito di ipotizzare che tali elementi potessero avere la funzione di bitte, oramai evidentemente in crollo.

Sempre a ridosso della cortina meridionale, ma nella parte terminale della struttura, a circa 75 m dalla radice, è stato possibile individuare, inoltre, alcuni tratti di canalette, scavati in lunghi blocchi di calcarenite e spesso scompaginati dalla forza del moto ondoso, alcuni blocchi sagomati che presentano intagli curvilinei e un blocco sagomato in modo da creare un’apertura quadrangolare, che potrebbe essere ipoteticamente interpretata come alloggiamento per la canaletta.

L’intera struttura si trova oggi sotto il livello del mare, poiché i blocchi alla radice sono alla profondità di meno di un metro, mentre quelli in testata raggiungono i -3.5 m: ciò rende il molo di Posto San Giovanni anche un importante marker di variazioni del livello del mare, considerando un innalzamento relativo dai primi anni della nostra era a oggi di circa 2 m e un pescaggio delle navi antiche compatibile con i restanti 2 metri.

Una canaletta a sezione semicilindrica scavata in lungo blocco di calcarenite, nei pressi della cortina meridionale del molo (foto Università del Salento)

Un altro dato significativo è rappresentato dalla tecnica costruttiva, affine a quella a cassone o a vespaio, molto e per lungo tempo diffusa grazie alla disponibilità del materiale lapideo, che veniva cavato sulla costa probabilmente in prossimità delle costruzioni, e attestata di frequente lungo la costa adriatica, con varianti e adattamenti locali (tra le altre, le strutture di attracco della costa triestina, istriana e dalmato-illirica, come quelle di Punta Sottile a Muggia-Trieste, Savudrija, Vis, Murter, Polače sull’isola di Mljet in Croazia), e nel mondo greco (il molo orientale di Thasos, quello di Mecyberna a Olinto e la versione iniziale del porto di  Kyme eolica).

Sulla base degli elementi finora noti, è possibile ipotizzare che anche il molo di Posto San Giovanni – Le Cesine possa riferirsi al sistema a cassone lapideo con riempimento di inerti, sebbene abbia anche una fondazione in opera quadrata “piena”, che costituisce la base di un possibile riempimento e di eventuali altri setti trasversali spazzati via dal mare.

Non è da escludere, comunque, che la struttura afferisca alla tecnica edilizia che caratterizza il grande molo di Adriano che si trova a nord dell’ampia baia di San Cataldo, a cui lo avvicina l’imponente sviluppo. Si tratta concettualmente della stessa costruzione a cassone, che però diventa “costruzione in opera quadrata e cementizio” nella definizione di Enrico Felici. Anche il molo di San Cataldo, infatti, vede l’impiego di fianchi e catene trasversali di blocchi per creare compartimenti interni per il riempimento, costituito però in quel caso da cementizio “locale”, non specifico per le opere idrauliche (la stessa tecnica, ma con cementizio idraulico per cui è stata impiegata pozzolana flegrea, è attestata nella radice del molo di Kyme e in quello di Pompeiopolis in Cilicia, Turchia). Non si può quindi escludere il ricorso al cementizio, nonostante non se ne rinvengano tracce, perché anche nella parte sommersa del molo di San Cataldo il riempimento interno non è più visibile e si seguono solo le fondazioni in opera quadrata delle due cortine, probabilmente a causa proprio della versione “locale” del cementizio, non specifico per l’uso idraulico e quindi poco coerente e più vulnerabile all’azione erosiva del mare. Altro elemento particolarmente interessante è la presenza di blocchi lavorati e di canalette, soprattutto perché la loro posizione rivela chiaramente una pertinenza strutturale al molo di Posto San Giovanni. Insieme alle altre strutture sopra ricordate, pertanto, la presenza di questo grande molo configura un complesso portuale importante, la cui articolazione complessiva è ancora da precisare, per approfondire la conoscenza della quale sarà necessario un intervento dedicato. È altamente probabile, infatti, che il grande molo e la struttura a blocchi in linea con esso, 40 m più al largo, fossero in continuità, nonostante oggi appaiono separati, forse a causa del considerevole apporto sabbioso degli ultimi anni. La cosiddetta “Chiesa sommersa” sembra poter essere interpretata come la parte basale di un edificio un tempo emerso, realizzato su un promontorio roccioso appositamente modellato. La sua notoria ma ipotetica identificazione con una chiesa risale alla metà dell’Ottocento, quando Marciano la descrisse come l’antichissima chiesa di S. Giovanni. La sua ubicazione, la possibile relazione con le altre strutture e i resti degli alzati in cementizio portano invece a congetturare anche una sua possibile funzione di torre di segnalazione/faro, ma si tratta al momento solo di un’affascinante ipotesi, ancora tutta da verificare.

Di certo, una considerevole suggestione è data anche dalla persistenza di un tracciato viario (visibile in alcuni punti e in foto aerea) che, da Lecce, punta direttamente all’area del molo. Le indagini non invasive 2020-2021 non hanno permesso, al momento, di trovare elementi che ne possano definire con certezza la cronologia, ma il modulo notevole dei blocchi indizia una certa antichità della struttura e gli scarni depositi archeologici correlati agli allineamenti murari a terra hanno restituito per lo più anfore datate alla tarda Repubblica o all’alto Impero. Ipotizzare una datazione a età augustea per queste opere portuali è un’ipotesi di certo assai suggestiva: in tale ricostruzione, potrebbe essere plausibile pensare che la città romana sia nata in un programma esaustivo di pianificazione, con la sua area pubblica monumentale, le sue necropoli e la sua cinta muraria – queste ultime in parte coincidenti con le preesistenze messapiche – il suo territorio agricolo e, non ultimo, anche il suo approdo.

Le fonti, del resto, ricordano lo sbarco di Ottaviano da Apollonia in un porto da cui poi raggiunse Lupiae: un porto che doveva quindi godere di una certa considerazione tra la fine dell’età repubblicana e la prima età imperiale ed essere forse già munito di alcune infrastrutture. È possibile che quel porto fosse proprio quello “ritrovato” a Posto San Giovanni? E che solo in seguito, forse per ragioni di carattere geomorfologico, il porto di Lupiae sia stato spostato più a nord con la realizzazione di un nuovo grande molo, sorto per volontà di quel grande costruttore che fu l’imperatore Adriano? È proprio a questi interrogativi che cercheranno di dare una risposta le prossime attività della Cattedra di Archeologia Subacquea dell’Università del Salento… la ricerca continua.


Questo articolo è tratto dalla relazione conclusiva sulle indagini non invasive scritta da Rita Auriemma, Antonella Antonazzo, Luigi Coluccia e Michela Rugge.

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