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giovedì, Novembre 14, 2024

Pietro Zito, il cuoco contadino

Raggiungere Borgo Montegrosso è già un viaggio verso le tradizioni. Un borgo che fa parte del territorio di Andria, da cui dista circa 18 km, inserito nel 2021 tra i Borghi della Salute. Lo raggiungo per intervistare uno dei fautori della valorizzazione di questa borgata, punto di attrazione per viaggiatori e lavoratori, un’icona di questo luogo: Pietro Zito. Quando mi incontra, mi offre delle mandorle tostate e salate – ed ecco che già mi ha conquistato – mi spiega che era impegnato in una chiamata con il suo ristorante di Tokyo a cui stava trasmettendo il nuovo menù. Basta guardarlo negli occhi per comprendere che si ha davanti una personalità forte, che provoca soggezione, pur non volendo, nonostante la sua semplicità ed il suo modo di fare accomodante.


 Quando nasce il ristorante Antichi Sapori?

«Il ristorante quest’anno compie 30 anni, siamo chiocciola Slow Food dal 1994, tra i più vecchi chiocciolati d’Italia. Per noi la chiocciola non è mai stata un traguardo, ma un punto di arrivo per cercare di garantire la qualità, non solo del cibo, ma anche qualità etica, per il personale, per i fornitori, per i clienti. Io lavoravo come direttore nel ristorante Ostello di Federico uno dei migliori qui in zona, ma non rispecchiava ciò che volevo. Volevo l’osteria, andavo a mangiare quando ero giovanissimo da Cucina Casalinga a Minervino Murge e mi piaceva molto quel concetto di cibo semplice, sano, l’armonia del luogo: gli altri ristoranti erano tutta formalità, ed in quella formalità io non mi ritrovavo. Allora a fine ‘92 iniziarono i lavori qui, decisi di fare un’osteria a conduzione familiare, con poche pretese, che mi avrebbe fatto riprendere la mia vita, la mia passione per la campagna».

Come mai hai scelto di aprire a Montegrosso?

«Io sono nato qui, al civico 1, questo è il 6. Lì accanto vivevano i miei genitori, ed in questi pochi metri quadri, 65, abbiamo creato una cucina e 25 posti a sedere, una cucina realizzata con cose di recupero. Avevo investito tutti i miei risparmi, avevo chiesto 10 milioni di vecchie lire ai miei amici perché la banca non me li dava, non avevo niente, li investii tutti. Con quei pochi soldi aprii l’osteria, in controtendenza con ciò che succedeva in quel momento, e tutti mi dicevano: “Tu sei un pazzo, apri a Montegrosso per far mangiare i legumi, il pan cotto, pasta e cicorie, purè di fave con la cicorietta!”, quando Andria viveva il culmine del boom economico delle aziende di intimo, tutti con macchinoni, champagne a fiumi, caviale».

Eri già cuoco? 

«Avevo fatto esperienza in cucina, prima a Parco degli Svevi, dall’86 all’89, e poi 4 anni all’Ostello di Federico, ma il mio concetto era diverso, in quel periodo nei ristoranti si mangiavano le farfalle con panna e vodka».

Così cominciasti a coltivare il tuo orto?

«La mia cucina rientrava in un concetto di cucina semplice, quotidiana: era come mangiare a casa. Se mangi a casa è improponibile prendere la macchina e andare ad Andria per prendere il prezzemolo o il pomodorino al filo. Qui tutti avevano un vaso, l’orto, c’era la necessità di avere una base qui, per sopperire non a una moda ma a una necessità, quindi l’orto era una base per avere pochi prodotti: la cipolla, l’aglio, la fava». 

Quindi il tuo ristorante possiamo dire che nasce già con il concetto di cucina a Km 0?

«Sì, a km 0 sin dal 1992».

Quando hai cominciato a capire che la tua idea stava funzionando?

«Volevo riprendermi la mia vita, non volevo fare business, volevo solo una base economica per sopravvivere per poi dedicarmi alla campagna, alle cose che mi piaceva fare. Dal primo giorno invece il ristorante esplose, una cosa che non mi spiegavo».

Da dove venivano i primi clienti?

«C’è stato un flusso importante di rappresentanti, che si trovavano per lavoro in questa zona, stavano sempre fuori casa e non volevano mangiare pasta con la panna o cose troppo elaborate, volevano invece cose semplici, pane, olio e pomodoro, come fossero a casa».

Ma come facevano a sapere di te, per giunta a Montegrosso?

«Grazie al passaparola. C’era un rappresentante che veniva da Lucera e diceva sempre che non vedeva l’ora di venire qui per mangiare pane e pomodoro e costatine di agnello. Stava qui, i telefoni non c’erano per fortuna e lui si rilassava, si sentiva a casa»

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A proposito di km 0, il tuo concetto è anche il rispetto dei tempi della natura, della biodiversità.

«Negli anni 2000 l’orto è diventato più bello, adesso è di 4 ettari. Lo stesso anno partecipai a Qoco (Concorso Internazionale tra Cuochi), dovevo presentare un piatto. La commissione di valutazione – c’era Iaccarino, Laura Ruggieri – arriva alle 9 di sera, io ero arrabbiato, avevo il ristorante pieno. Si scusarono e mi chiesero di fare il piatto da candidare. Giusto per non mandarli a quel paese feci il Pan cotto con le cime di rapa». Mi chiamano dopo tre giorni e mi dicono: “Pietro hai vinto il concorso!”. Poi venne ad intervistarmi Laura Ruggieri e andammo in campagna con mio padre che raccoglieva le verdure mentre camminavamo. Allora lei mi chiese: “Ma che sta facendo tuo padre?”. Risposi che stava raccogliendo le verdure per il pranzo. Mi fece notare che quello che facevo per necessità all’orto poteva essere il futuro. L’orto poi è cresciuto, noi abbiamo anticipato i tempi. E sempre lei ci fece notare che dovevamo cominciare a comunicare. Noi provenivamo da una civiltà contadina: ci si vergognava della povertà!»

Quando sono cominciati i primi viaggi all’estero?

«Ho aperto il primo congresso internazionale di cucina di Identità Golose a Milano, ho scritto la carta di Milano Expo per la ristorazione, ho seguito l’apertura di Eataly a NewYork. All’estero hanno bisogno di raccontare l’autenticità dell’Italia, non puoi portare all’estero una cucina internazionale, la fanno già loro. Allora andavo a Hong Kong a fare le orecchiette. D’estate noi lavoriamo al 90% con l’estero. Quando li porto nell’orto, e raccolgo la rucola, impazziscono, poi la mangiano nell’insalata». 

Ti chiamano il cuoco contadino, hai scelto tu questo appellativo?

«Me lo ha dato Paolo Marchi di Identità Golose quando doveva identificarmi in un panorama di cuochi veri».

Se dovessi lanciare un messaggio ai giovani, cosa gli diresti?

«Fate diventare questo lavoro un piacere, non deve essere un’alternativa al non trovare lavoro. Bisogna dare delle regole, ma ci deve essere il piacere di farlo. Non scendere a compromessi e avere un’identità forte».

di Angela Ciciriello

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