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giovedì, Dicembre 12, 2024

La tradizionale arte dell’intreccio vive e si rinnova

Cinque generazioni di cestai

La rampante offensiva commerciale dei cinesi, capace di abbattere i costi di gran parte dell’utensileria e prodotti per la casa, ha offuscato e messo a rischio estinzione molti dei prodotti tipici dell’artigianato salentino. I panàri, cesti intrecciati a mano composti da giunchi di ulivo e canna, utilizzati soprattutto per la raccolta e il trasporto di fichi, le còfane, molto più grandi, utilizzate per il trasporto degli stessi, i cannizzi, le stuoie su cui si facevano essiccare pomodori e fichi, sono solo alcuni degli attrezzi utilizzati da generazioni di contadini salentini. A Matino, un centro del Basso Salento, sopravvive la tradizione dei mesci panaràri, maestri cestai ed ha trovato nella famiglia Tamborrini, degni e prestigiosi interpreti dell’arte dell’intreccio. Si tratta di cestai che da cinque generazioni si tramandano un sapere basato sulla pratica della manualità con tutte le sue sfaccettature e articolazioni, che si apprende giorno dopo giorno, panaru dopo panaru. Li abbiamo incontrati per conoscere meglio questa tradizione e farci raccontare dal quindicenne Alessio, suo padre Luigi e il capostipite Aldo, come vivono, producono, commercializzano e innovano l’arte dell’intreccio.

Aldo, come tutto questo ha avuto inizio?

«Risalendo indietro nel tempo, ricordo mio nonno che era del 1881 ed è morto nel 1967; viveva del mestiere di cestaio e della campagna, allora io avevo 21 anni e già da piccolo gli sedevo accanto, i primi intrecci li ho appresi da lui. Poi la tradizione è passata a mio padre deceduto nel 1997, lui ha lavorato tantissimo perché quel periodo è coinciso con gli anni in cui questi prodotti erano molto utilizzati, direi che erano indispensabili per il lavoro in campagna. Non essendoci ancora gli utensili in plastica e i prodotti industriali di metallo, tutto veniva trasportato con attrezzi fatti a mano con materiale naturale. Facevamo le impagliature per i fiaschi di vetro ed i contenitori per le grandi damigiane, grosse ceste per trasportare notevoli quantità d’uva. La canìscia per trasportare grandi quantità di pane e naturalmente tanta produzione di panàri di cui ogni famiglia ne aveva almeno cinque o sei di diverse dimensioni».

  Quali oggetti hai imparato a intrecciare per primi?

«Naturalmente il panaru, inizialmente di piccole dimen- sioni perché l’intreccio necessita una certa forza che da molto piccoli non si ha. La forma non era delle migliori ma con il tempo, l’attenzione ed i consigli del papà che stava sempre vicino a correggermi e “provando e riprovando” la tecnica si perfezionava. Imparare questo mestiere, sem- bra facile, ma non lo è, soprattutto, per fare un panaru ben fatto ci vuole fatica, tempo e perizia».

Luigi, di che materiale è fatto un panaru?

«Il materiale utilizzato nel nostro lavoro è fatto di diversi tipi di vinchi, arbusti dalla fibra particolarmente resistente come l’ulivo e il salice, ma anche il melocotogno, il melograno, il lentisco, il mirto, il giunco, abbastanza facili da trovare, e le canne palustri. Naturalmente questo materiale va trattato con la bollitura, l’essiccazione, la levigatura, il taglio, eventuale coloritura naturale, poi bisogna lasciarlo essiccare prima di iniziare la lavorazione con l’intreccio. Tutti questi tipi di arbusti sono presenti nella macchia mediterranea, noi li trasformiamo in vinchi essendo particolarmente adatti alla torsione. Ma il materiale principale proviene dall’albero d’ulivo per la sua resistenza, flessibilità e capacità di resistere al tempo. La Xylella, purtroppo, ha colpito anche noi, per questo utilizziamo altri tipi di piante come detto prima.

Volevo aggiungere qualcosa sulle origini del nostro lavoro: mio nonno abitava in questa casa laboratorio dove abito io adesso e in questa stanza dove siamo adesso, che funge anche da deposito, magazzino o showroom come si dice, lui praticamente faceva tutto, era il suo luogo di lavoro, ma anche di vita. Ricordo da piccolo, abitando a breve distanza da qui, passavo più volte al giorno per andare a scuola, all’oratorio per il catechismo, a giocare con gli amici e lo vedevo sempre e solo piegato a intrecciare panari e quant’altro. Dopo che mi invitava a raggiungerlo mi diceva “… stai con me, siediti qua vicino “mpara l’arte e mintila te parte”, impara l’arte e fanne tesoro. Ho iniziato così a imparare l’arte dell’intreccio, mai pensando che da grande sarebbe diventata un’attività importante del mio lavoro».

 Alessio, parlami della tecnica di lavorazione.

«Allora, dopo che vengono tagliate le canne, che nasco- no spontaneamente (il nostro territorio ne è abbastanza ricco), si tagliano, si ripuliscono, si rifilano a striscioline, naturalmente tutto manualmente prestando attenzione ad avere strisce tutte della stessa lunghezza e dello stesso spessore. Diciamo che questo sistema di preparazione del materiale, sia delle canne che dei vinchi, è lo stesso dei miei avi, un secolo e passa fa».

 (Interviene spontaneamente Aldo)

«Di domenica mattina si andava alle piazze, a Sannicola, ad Alliste, a Ugento 50 o 60 anni fa, perché era il giorno in cui erano tutti a casa e si vendeva di più. Andavamo con le biciclette, le strade non erano ancora asfaltate e la merce era assemblata attorno al piccolo portabagagli della ruota di dietro. Quando veniva estate, si vendeva di più perché si raccoglievano i fichi, molto più consumati di adesso, raccoglievamo anche quelli che cascavano per terra, per poi essiccarli sui cannizzi che noi vendevamo. Poi per trasportare l’uva da vino erano necessari grandi cesti, anche questi molto venduti nella stagione estiva».

Alessio, dimmi qualcosa sulla tecnica di lavorazione

«La lavorazione è semplicemente l’arte dell’intreccio: come le case dove si parte dalle fondamenta per andare su, anche per il panaru si parte dal basso, “dal culo” dicono i contadini, la parte di appoggio, per poi salire, salire con l’intreccio delle strisce di canne fino ad arrivare al bordo che viene orlato con uno strato di vinchi d’ulivo per finire con l’intreccio del manico».

Luigi, hai qualche ricordo particolare del nonno?

«Come no! Faceva centinaia di panàri che avevano una caratteristica. Erano incredibilmente uguali, quasi un prodotto dalla precisione industriale con la differenza che erano tutti fatti a mano. Anche perché le contadine che raccoglievano le olive dovevano avere la stessa unità di misura per evitare che litigassero. Se una donna aveva un cesto più piccolo ci metteva meno tempo a riempirlo e ciò provocava le lamentele che sfociavano in frequenti litigi da parte delle altre».

Luigi, che mercato c’è oggi per questo tipo di oggetti?

«Adesso, diciamo pure negli ultimi anni, si sta riscoprendo l’uso di questi oggetti sia per il loro utilizzo naturale, ma anche come oggetti estetici che richiamano la tipicità della tradizione salentina. Mi soffermerei però ad un vero e proprio ritorno al loro utilizzo originario, per la raccolta di funghi per esempio, come contenitori di legname da ardere vicino al camino, per conservare la frutta che sicuramente respira meglio che in un contenitore di plastica o di metallo. Oltre al fatto che trattandosi di materiale di origine vegetale è un prodotto green, utile all’economia circolare, non comportando problemi di smaltimento o inquinamento».

Aldo, chi è interessato a questa merce so che non la trova dietro l’angolo. Li fate ancora i mercati?

«Non come prima. Facciamo alcune feste patronali ed i mercati di Casarano e Gallipoli, le cittadine più grandi di questa zona. Anni fa, sulla mia bicicletta, dietro la quale avevo fatto attaccare un portabagagli resistente, lega- vamo due canne alte due metri dove infilavamo una tale quantità di panari simile a una torre: vi lascio immaginare quanto fosse faticoso guidare su strade ancora sterrate. Ricordo che si partiva con mio padre al buio la mattina presto, per arrivare in tempo all’uscita della prima messa, che essendo frequentata da molti contadini, appena fuori dalla chiesa si avvicinavano e si compravano in quattro e quattr’otto tutta la merce esposta. Con la stessa bicicletta si andava poi nella macchia a trovare vinchi. Si andava di mattino prestissimo carichi di merce da vendere e si tornava di sera carichi di arbusti da la-vorare e intrecciare. Mi è capitato anche di fare diverse nottate fuori, quando la festa patronale durava due gior- ni ci si arrangiava in qualche modo passando la notte all’addiaccio per ritornare la sera successiva».

Per finire Aldo mi dice che è un lavoro che ancora adesso ha della magia. Suo padre ha mantenuto la famiglia con questo mestiere ed è stato per una vita, “te sule a sule”, piegato a intrecciare. C’è una sorta di ipnosi da lavoro, quando si è iniziato un oggetto si fa una grande fatica a staccarsi finché l’oggetto non è terminato e proprio questa magica tradizione ha legato cinque generazioni che, per certo, Alessio continuerà a tenere viva.

di Mario Blasi

Pubblicato il 13 dicembre 2022 alle ore 13:45

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