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mercoledì, Maggio 1, 2024

Il tempo, il lavoro, la vita: un rapporto difficile – di Angelo Di Summa

Non molti sanno che la prima massiccia emigrazione italiana in Australia, agli inizi degli Anni Cinquanta del Novecento, fu accolta con insofferenza, se non con aperta ostilità, da parte delle popolazioni già precedentemente insediate nelle città del nuovissimo continente. Non rilevavano tanto, ai fini della problematica accoglienza, pregiudizi di tipo razziale, quanto una forma di concorrenza nel lavoro, che esulava da aspetti meramente economici per diventare una forma di eversione culturale, sia sul piano individuale che sociale: una rivoluzionaria alternativa valoriale e esistenziale. Prima dell’arrivo degli italiani, infatti, tutta l’esistenza pubblica e privata degli australiani era saldamente fondata sul principio dell’organizzazione del tempo in base al principio dei “tre otto”: otto ore per lavorare, otto ore per dormire, otto ore per vivere. Nel concetto del vivere c’erano tutti i bisogni e gli ambiti pulsionali e sociali dell’esistere: la famiglia, il tempo libero, lo sport, gli hobbies, il giardinaggio, l’arte, la cultura, il riposo, l’eros e quant’altro rimanesse estraneo all’alienante e ideologico “principio di prestazione”. 

L’arrivo degli italiani sconvolse il sistema introducendo il concetto di “lavoro straordinario”: pur di guadagnare il più possibile gli immigrati italiani erano disposti a lavorare più delle tradizionali otto ore giornaliere. Da qui l’ostilità di chi vedeva non tanto una concorrenza sleale sul mercato del lavoro, quanto uno sconvolgimento di un principio di vita. Non mancarono nei confronti degli italiani epiteti pesantemente offensivi, come “dingo”, il nome del celebre cane del deserto. 

Il tema del rapporto vita/tempo, con particolare riferimento al lavoro, peraltro, è antico. Nel mondo classico il lavoro materiale era caratteristica delle classi sottomesse, se non degli schiavi, restando ideale filosofico di vita dell’uomo padrone del suo destino l’otium, lo spazio da dedicare creativamente ai piaceri dell’anima e del corpo. 

Tornando a tempi meno lontani, la problematica ha occupato ampio spazio nella elaborazione del pensiero socialista. Straordinario successo ebbe il pamphlet Il diritto alla pigrizia, apparso nel 1887, di Paul Lafargue, che fu ritenuto la più diffusa pubblicazione sul pensiero socialista, inferiore soltanto al Manifesto di Marx e Engels. “Una strana follia – così iniziava lo scritto di Lafargue – si è impossessata delle classi operaie nelle nazioni ove regna la civiltà capitalistica. Questa follia trascina con sé le miserie individuali e sociali che da due secoli torturano la triste umanità. Questa follia è l’amore per il lavoro, la moribonda passione per il lavoro, spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie”. Con il gusto del paradosso che lo contraddistingue Lafargue invoca il “diritto alla pigrizia”, vedendo invece nella proclamazione del “diritto al lavoro” una invenzione del capitalismo per asservire a sé la classe operaia, legandola totalmente alle esigenze della produzione e negandole ogni spazio per vivere una propria e istintiva dimensione di umanità. Funzionale a questa riduzione in schiavitù c’è anche tutta la pedagogia religiosa che vuole l’uomo nato per dover lavorare e produrre. “Per arrivare alla consapevolezza della propria forza, – scrive Lafargue – bisogna che il proletariato calpesti i pregiudizi della morale cristiana, economica e libero-pensatrice; bisogna che ritorni agli istinti naturali, che proclami i Diritti alla pigrizia, mille e mille volte più nobili e sacri dei tisici Diritti dell’uomo, elaborati dagli avvocati metafisici della rivoluzione borghese”. Del resto, argomenta il Nostro, non è stato lo stesso Dio, in occasione della cacciata dall’Eden, a considerare il lavoro una condanna? E non è stato Dio a scegliere di riposare per l’eternità, dopo i giorni della creazione? 

Laico e antireligioso, Lafargue non esita però a difendere, contro i numerosi tentativi di modifica della classe capitalistica, sotto forma di libero pensiero o di Riforma, il calendario voluto dalla Chiesa, che almeno, in onore di qualche Santo e per rispettare alcuni momenti liturgici, ha previsto dei giorni di festa e di astensione dal lavoro. 

Ovviamente Lafargue non è contro il lavoro in sé, ma contro i suoi eccessi e, soprattutto, contro quella cultura (capitalista) che lo assolutizza come valore e non come necessità. Il vero valore è il tempo e la sua funzionalizzazione alla vita. “Vi sia l’obbligo di lavorare solo tre ore al giorno, – invoca Lafargue – a fannullare e fare bisboccia per il resto della giornata e della notte”. 

Per contestualizzare, quelli di Lafargue sono i tempi terribili della rivoluzione industriale: giornate lavorative di sedici ore in condizioni disumane, sfruttamento intensivo del lavoro minorile e femminile, mancanza di ogni garanzia di sicurezza e previdenza e, nonostante ciò, la classe operaia, indottrinata a dovere, sceglie di “ammazzarsi per il superlavoro e vegetare nell’astinenza”.

La ricetta di Lafargue è, come s‘è visto, la riduzione dell’orario del lavoro ed è questo un tema che impegnerà larga parte del Novecento. Sarà una vera rivoluzione culturale la pratica industriale del fordismo che attorno agli Anni Venti in America, con l’obbiettivo di trasformare gli operai in consumatori dei beni da essi stessi prodotti, razionalizzò i processi produttivi con la catena di montaggio (taylorismo), aumentò i salari e ridusse l’orario di lavoro. Lo stesso Gramsci guarderà con interesse all’americanismo fordista, contrapponendolo al capitalismo di rapina del Vecchio Continente. Negli stessi anni di Ford ritroviamo il tema della riduzione dell’orario di lavoro anche in Inghilterra. Ricordiamo William Hesketh Lever (1851-1925), fondatore della Lever Brothers Ltd., che dovette la sua fortuna al sapone Sunlight, il quale sostenne la maggior utilità, anche dal punto di vista produttivo, della giornata di lavoro di sei ore, purché siano ore di “vero lavoro senza distrazioni”. In ogni caso il tema è tuttora aperto, se è vero che occupa ancora le cronache politiche dell’oggi. 

A conclusione di questa divagazione sul rapporto tra il tempo, il lavoro e la vita non possiamo evitare di ricordate Herbert Marcuse, nume tutelare dei sessantottini, e il suo invito a reinventarsi la libertà individuale da ogni convenzione e da ogni maschera imposta dalla società repressiva attraverso la liberazione dei sensi e la riscoperta del “principio di piacere” contro il “principio di prestazione”, che tutto stratifica a misura delle prestazioni economiche del soggetto. Ovviamente non si può eliminare il lavoro, ma non è su di esso che va fondata tutta l’organizzazione sociale. L’uomo ha bisogno invece di autorealizzarsi riscoprendo l’Eros, cioè la fantasia, la creatività il gusto della vita. Forse gli australiani non avevano torto a diffidare degli italiani. E comunque, a chi continua a predicare che “chi ha tempo non aspetti tempo”, forse è il caso di proclamare “chi ha tempo se lo goda”. 

di Angelo Di Summa

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