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giovedì, Maggio 2, 2024

La storia aiuta, ma l’enigma rimane

Che ci fa nel mosaico re Artù? Quell’immagine raffigura davvero il leggendario sovrano celtico?” Sicuramente l’Artù storico, ricondotto alla dimensione di condottiero militare, fu figura meno grandiosa dell’Artù leggendario e letterario,che troviamo nelle opere di Chretien de Troys (il primo articolato racconto della vita e gesta di Artù compare tra il 1135 e il 1137 nell’ “Historia Regum Britanniae”di Goffredo di Monmouth, opera che ebbe una notevole diffusione per la sua epoca, ma è con Chrétien de Troys e con la nascita del romanzo cortese che le vicende di Artù e dei suoi cavalieri assumono un connotato ideale e fantasioso, divenendo fenomeno letterario). Sembra certo che il mosaico fu commissionato da Gionata, primo vescovo latino di Otranto ed eseguito, presumibilmente,sotto la direzione di un monaco di rito greco, forse facente capo all’abbazia di S. Nicola di Casole, nel periodo tra il 1163 ed il 1165, epoca in cui la Puglia era in mano normanna e re di Sicilia Guglielmo I° detto “il Malo”. Come osserva Willemsen “Tre interrogativi si imporranno anzitutto all’osservatore, dopo che si sarà riavuto dalla sorpresa provocata dall’inattesa visione, vale a dire: quale avvenimento della vita di questo re così avvolto nella leggenda è qui raffigurato; perché egli è stato effigiato in una maniera così insolita; e, per finire, se e come può essere spiegato il suo inserimento proprio in questo punto”. Negli accademici é univoco il convincimento che la scena rappresenti il combattimento tra re Artù e il felide “Losanna”, con esito fatale per il re, gettato a terra ed azzannato, così come la cavalcatura del sovrano, un caprone, animale demoniaco, si indica come simbolo della lussuria del re. Singolare poi è il fatto che il re appaia “armato” di un bastone, indicato dai più come uno scettro.

È necessario puntualizzare alcuni fatti: 1) la corona sul capo della figura di Artù non esisteva in origine, essendo stata posta durante un restauro effettuato nel XIX° sec. (in un disegno del mosaico realizzato nel 1818 dall’antiquario e storico francese Millin, il cavaliere risulta privo di corona); 2) la parte di mosaico in cui è inserita la figura di Artù presenta varie tracce di precedenti parti musive; 3) all’epoca di realizzazione del mosaico di Otranto la figura di Artù non aveva ancora raggiunto una fama tale da essere presa in considerazione per l’inserimento in un’opera di tale importanza e con finalità non solo artistiche, ma soprattutto simboliche ed allegoriche. Le prevalenti interpretazioni non prendono in considerazione quest’aspetto in quanto fanno riferimento ai romanzi cortesi come veicolo di universale diffusione della leggenda, dimenticando però che se la figura di Artù fu inserita nel mosaico durante la sua originaria realizzazione (l’opera fu realizzata tra il 1163 ed il 1165), le prime opere letterarie che iniziarono a diffondere la vicenda romanzata dei personaggi arturiani e del re nelle corti normanne si diffondono in epoca successiva, con la conseguenza che all’epoca della realizzazione del mosaico tutte le opere cui fanno riferimento gli interpreti non erano state ancora scritte e diffuse. Quanto all’episodio del Gatto di Losanna (tramandato dal Livre d’Artus, compreso nella Vulgata o Prose Lancelot che fece la sua apparizione tra il 1220 ed il 1230, oltre mezzo secolo dopo la ultimazione del mosaico), il re non soccombe, come nel mosaico, ma ne esce vittorioso. Si potrebbe azzardare una conclusione ovvia: la figura di Artù non appartiene alla realizzazione originaria del mosaico, ma fu inserita successivamente, quando ormai si era ampiamente diffusa la letteratura arturiana. Una tale conclusione restituirebbe significato alle varie interpretazioni degli studiosi, pur nell’ambito di una distinzione dell’epoca sulle parti dell’opera musiva.

La cosa, però, non convince a sufficienza. La figura di Artù , in origine priva di corona, è abbigliata con abito monacale ed impugna un bastone con una sommità sferica. Quest’ultimo viene descritto, ma verosimilmente quello impugnato da Artù non è uno scettro, ma un semplice bastone. Nel medioevo l’arma offensiva per eccellenza era la spada, simbolo non solo laico e militare, ma spesso impregnato di sacralità. Una tradizione risalente al IX° secolo vietava agli ecclesiastici di spargere sangue. Essi, però potevano utilizzare, per difendersi, grossi bastoni sormontati da un pesante pomolo. Il bastone impugnato da Artù nel mosaico ricorda molto quel tipo di strumento.

Ora, se probabilmente in origine il personaggio raffigurato non rappresentava Artù, essendosi “trasformato” solo in seguito nel leggendario sovrano, chi o che cosa rappresentava? È necessario contestualizzare l’opera: il regno normanno di Sicilia e di Puglia era strettamente collegato al regno normanno d’Inghilterra. Nel 1177 Guglielmo II° detto il Buono, re di Sicilia e signore di Puglia, sposò Giovanna, figlia di Enrico II° Plantageneto, re d’Inghilterra, sorella di Cuor di Leone e di Giovanni Senza terra. Inoltre nel Salento meridionale esisteva un episcopato greco.  Nel caso di Otranto è difficile individuare con precisione un momento di passaggio dall’episcopato greco a quello latino. In ogni caso mentre il rapporto tra i Normanni e la Chiesa latina era fondato su una sostanziale alleanza, altrettanto non si può affermare con riferimento alla Chiesa greca. La Chiesa greco-bizantina, infatti, vedeva i Normanni come alleati del papato, i quali intendevano imporre un episcopato latino in Puglia e nel Basso Salento. I Normanni, però, non eliminarono il rito greco, limitandosi a un suo graduale soffocamento. Nel Medioevo la trasmissione del sapere non viaggiava rapidamente sui testi, come nelle epoche successive, ma si fondava in prevalenza sulla parola, sulla memoria e non di rado sul simbolo, così le rappresentazioni artistiche e quelle a carattere iconografico, assumevano rilevanza come strumenti di conservazione e di registrazione delle conoscenze. Si può affermare come l’arte figurativa medievale fosse anche un’arte della memoria.

All’epoca accadde un episodio, del quale non si può escludere una ripercussione anche nella realtà sociale e religiosa del Basso Salento. Nel 1170, nella Cattedrale di Canterbury, per volontà di Enrico II° d’Inghilterra, divenuto suocero, sette anni dopo, di Guglielmo II° di Sicilia e di Puglia, fu assassinato Thomas Becket, Arcivescovo di Canterbury. Questi era stato fraterno amico e cancelliere di Enrico, che nel 1161 lo volle come Primate d’Inghilterra. Becket, però, deluse le aspettative del suo amico e sovrano, anteponendo gli interessi spirituali dei fedeli agli interessi del re; così Enrico, da grande amico, divenne il peggior nemico di Becket. Ne nacque un contrasto, che costrinse il Primate a rifugiarsi in Francia, dove trascorse sei anni nell’abbazia cistercense di Pontigny. Nel 1164 Enrico II° promulgò le Costituzioni di Clarendon con le quali sottopose i chierici al giudizio del re, attentando all’autonomia ed alla sovranità della Chiesa. Rientrato in Inghilterra Becket continuò la sua battaglia di principio, sino alla sua uccisione ad opera dei seguaci del re. Il suo assassinio destò grande scalpore e venne considerato un vero e proprio martirio. Nel 1173 papa Alessandro III° lo canonizzò ed il pellegrinaggio alla sua tomba divenne uno dei più importanti del suo tempo. Anche nel regno normanno del sud Italia l’uccisione di Thomas Becket ebbe altissima risonanza.

Ricapitolando: la Chiesa Greca di Otranto attraversava un momento critico stante l’intento normanno di latinizzarla; l’autore principale del mosaico, presumibilmente, faceva capo al monachesimo greco di S. Nicola di Càsole; nel Medioevo le rappresentazioni artistiche, e dunque anche i mosaici, assumevano spesso un contenuto di registrazione della memoria storica; nel 1177 Giovanna, figlia di Enrico II° d’Inghilterra, sposando Guglielmo II° di Sicilia e Puglia divenne regina; suo padre veniva considerato il mandante dell’assassinio di un Santo; Thomas ed Enrico erano stati amici fraterni.

Ne scaturisce un’ipotesi plausibile: il personaggio sul caprone, rappresentato nel mosaico subito prima dell’episodio biblico dell’uccisione di Caino da parte di Abele, non è, o almeno non nasce, come raffigurazione di Artù. Può invece rappresentare Thomas Becket. Egli cavalca la lussuria e la corruzione (simbolicamente rappresentati dal caprone), che combatte. Saluta, poiché ritorna dall’esilio in Francia per continuare nella sua lotta a difesa della Chiesa. Il gatto è un leone leopardato simbolo araldico di Enrico II°, o potrebbe anche essere una lince. Quest’ultimo felino, infatti, è richiamato nella profezia di Merlino con riferimento alla famiglia di Enrico II° (“Uscirà da lui una lince che s’insinuerà in ogni dove e che minaccerà la distruzione del proprio popolo”). La scena è inserita nel mosaico proprio a ridosso dell’episodio di Caino e Abele, probabilmente perché Enrico e Thomas erano legati da antica e fraterna amicizia. Enrico, simboleggiato dal felide, è il Caino della vicenda, che non accettando la devozione totale dell’amico Thomas alla Chiesa di Cristo, lo uccide a tradimento. L’autore della scena intendeva fissare una polemica di carattere politico religioso: la casa normanna, tanto alleata della Chiesa romana da tendere alla definitiva latinizzazione della Chiesa greca meridionale, era legata da stretta parentela con assassini di vescovi e di santi. Questa manifestazione di protesta doveva restare in quel luogo sacro per sempre, ma non poteva essere palesemente evidenziata (la regina era la figlia di colui che aveva armato la mano degli assassini). In seguito, durante un altro intervento sul mosaico, qualcuno, così come accade ancora oggi, si chiese che cosa fosse o rappresentasse quella scena misteriosa. Nel frattempo si era diffusa la letteratura arturiana e, con tutta probabilità, l’uomo in groppa ad una cavalcatura attaccato da un gatto ricordò qualcosa di simile presente nelle opere del ciclo bretone. Non ci volle molto a mettere da parte differenze ed incongruenze, che rendevano la scena del mosaico totalmente diversa e lontana dall’episodio letterario: bastò scrivere accanto al nome d’Artù.

Si tratta di ipotesi, ma é innegabile il presupposto storico e letterario posto a fondamento delle stesse: non si risolverà “l’enigma”, però emergono nuovi presupposti di ricerca e valutazione di caratura strettamente storica su di un’opera che, dopo quasi nove secoli, ancora affascina per la sua complessità e per quell’alone di mistero che l’accompagna.

 

 

 

 

 

A cura di Giovanni Bellisario

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