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mercoledì, Maggio 1, 2024

Giovanni Valletta. Alla ricerca della espressività delle forme

Giovanni Valletta, come dimostra il suo, ormai lunghissimo, itinerario artistico, è stato anch’egli partecipe delle grandi trasformazioni della ricerca plastica del secolo scorso e dei due decenni del nuovo. Dopo una prima fase legata alla visione della figurazione, alla fine degli anni Sessanta matura la prima svolta significativa con la scelta dell’astrazione, confrontandosi con le esperienze dell’area dell’informale. Nelle sue sculture di allora, nella resa delle superfici tesa a sottolineare le accidentalità della materia, la imprevedibilità delle forme, quasi fossero sollecitate da forze vitali interne, e le fratture irregolari dell’involucro, si legge il suo modo di interpretare la condizione esistenziale, già acquisendo la piena consapevolezza delle problematiche connesse all’uso dei diversi materiali e delle relative tecniche esecutive, la cui padronanza poteva garantire una più libera creazione delle forme plastiche. A questa fase è seguito, nel corso degli anni Settanta, un periodo di conquistate certezze. Proprio la padronanza tecnica gli ha consentito di dominare le materie (con una preferenza per l’ottone), delle quali aveva scoperto le potenzialità della loro autonoma valenza espressiva, e soprattutto di riconquistare la funzione e la natura specifica della scultura, la cui essenza sta nel suo vivere nello spazio e in rapporto allo spazio, recuperando l’altro fattore fondamentale, la luce. Da allora  ha cominciato a sperimentare con costanza soprattutto il tema del rapporto tra materiali diversi, ricerca che non ha più abbandonato, ed è diventata  più chiara e matura la sua concezione artistica. Infatti, per lui i valori espressivi non dipendono solo dalla qualità fisica delle materie, ma più direttamente dalla relativa configurazione formale.

Vertice rosso – 2018 Legno laccato, laminato

Consapevole che mettere insieme materiali diversi è sempre stata una operazione a rischio per gli scultori che l’hanno sperimentata, ben sapendo, cioè, che le materie non sono  neutre e che il loro trattamento può determinarne nella combinazione effetti di forte contrasto, egli ha puntato sulla sensibilità e la finezza degli effetti, senza, in tal modo, più correre rischi.


 

 


Ampiamente collaudata tale linea di ricerca ha potuto procedere negli anni Novanta e nel primo decennio del nuovo secolo con piena convinzione e libertà, sperimentando, ad esempio, che anche nel piccolo formato è conseguibile  l’effetto “monumentalità”. Nella personale del 2011 egli, infatti, ha esposto una serie di opere  per i cui titoli ha fatto ricorso a termini architettonici, come Contrafforte o Propilei, la cui spiegazione sta certamente nel suo modo di concepire la scultura, che la sua essenza consiste soprattutto nella  concretezza strutturale e nel suo rapportarsi allo spazio reale, proprio come per l’architettura, non dimenticando, tuttavia, il giusto peso dei materiali. La loro scelta non è mai stata puramente strumentale. Nel loro utilizzo ha cercato sempre il necessario bilanciamento delle diversità. Se ciò è avvenuto, è perché alla base del suo procedimento di realizzazione dell’opera c’è anche una fase progettuale, che è parte integrante del processo inventivo.

Esedra con scultura – 2015 – Legno laccato, ottone bronzato

Proprio le opere di quella mostra dimostrano che egli non ha proceduto a una miniaturizzazione dei grandi formati, se si osservano attentamente la finezza e la sensibilità con cui l’artista ha trattato le materie e inventato le forme, si vede chiaramente ch’esse giocano sul filo di una coinvolgente ambiguità, tra seduzione e distacco, tra bellezza sensibile e puro intelletto, cioè proprio quelle qualità che ne costituiscono il carattere distintivo. A conferma del suo continuo ricercare, negli anni che precedono la mostra del 2015 (con l’amico Gino De Rinaldis a Matera),  per questa, egli ha dato vita a una serie di opere, utilizzando come materiale di base il legno, che, si sa, si presta a vari trattamenti. Si tratta di opere che non si possono non considerare oggetti plastici. Tra le opere realizzate ve n’è una, che ha per titolo L’uovo di Piero, che mi è sembrata avere le caratteristiche per considerarla quasi emblematica di questa sua ultima fase. In essa l’uovo è parte determinante dell’opera, sia perché, rimandando al titolo, viene dichiarata l’origine dell’oggetto –  Piero è, infatti, Piero della Francesca, che un uovo aveva raffigurato nella nota pala di Brera e  non si può ignorare che questi deve la sua forte identità artistica all’aver fatto della prospettiva e della geometria  il suo interesse precipuo e le basi costitutive della sua cultura figurativa – origine che permette di riconoscerlo come motivo simbolico, sia perché non è da escludere un richiamo al Neonato (1915) di Costantin Brancusi, uno scultore a Valletta familiare, che con la sua forma “semplice ed esemplare”, come è stata definita,  è stato posto all’inizio del percorso della scultura del XX secolo.

La trasposizione fatta da Valletta ne ha cambiato la valenza simbolica, ora solo estetica, grazie proprio al suo contesto formale. L’uovo, infatti, è collocato in uno spazio riservato della struttura, il criterio regolatore della quale è la geometria, sottolineata, tra l’altro, dal trattamento delle superfici, cioè la laccatura bianca. Stilisticamente contigue all’Uovo di Piero sono tutte le altre opere, successivamente realizzate, che hanno messo in luce ancora una volta la sua propensione a operare in modo progettuale, ma senza rinunciare alla invenzione delle forme per salvaguardarne la qualità estetica. Tant’è che riconoscendo un azzardo critico il mio parlare di processo di decantazione e idealizzazione per l’impressione generale che  proveniva da quelle opere, per le nuove, tra le quali è opportuno menzionare, per la loro esemplarità, Esedra con scultura, Rosso dormiente, Vertice rosso,     presentate nell’ultima personale (Lecce, Fondazione Palmieri, 2018) ho dovuto correggere il tiro, perché, pur se vi sono due dati che possono apparire nuovi, il riuso, cioè, di elementi metallici e la presenza del colore, a ben guardare, confermano la sua propensione, rimasta fondamentalmente immutata, a sperimentare la potenzialità espressiva di ogni materiale e di ogni tecnica, mai disgiunta dalla capacità inventiva.

GIOVANNI VALLETTA (San Cesario di Lecce 1936)

Giovanni Valletta è nato a San Cesario di Lecce nel 1936. Nel 1949 si iscrive alla Regia Scuola Artistica applicata all’industria di Lecce, frequentandola giusto negli anni in cui uno degli insegnanti era Aldo Calò, anch’egli nato nello stesso paese e che aveva ripreso l’insegnamento dopo la guerra, mantenendolo sino al 1954. La comune origine  favorì la sua frequentazione extrascolastica. Tra il ’59 e il ’62, ormai confermata la vocazione artistica, l’amicizia con Nino Cappello, trasferitosi a Napoli, diventa occasione per soggiorni periodici in quella città, durante i quali ha modo di entrare in contatto con l’ambiente artistico napoletano, in particolare di conoscere il coetaneo Gaetaniello, e i più maturi Antonio Borrelli e Augusto Perez, contatti che  servono a consolidare la sua formazione artistica. Gli esordi lo vedono, infatti, impegnato sul versante ancora figurativo, ma anche impressionato dal clima e dal fervore dell’ambiente napoletano. Il passo successivo è  la scoperta delle radici moderne della scultura contemporanea, artisti come Hans Arp e Brancusi. È la vera svolta della sua ricerca, da quel momento in poi dedica il suo impegno a sperimentare il rapporto fondamentale tra forma e materiali e tra i materiali e la luce. Nasce da questa ricerca, ad esempio il tema delle piazze, una originale rivisitazione della storia del territorio a  lui familiare, il Salento, la cui luce ha trovato proprio nella sua architettura e nel materiale di cui è fatta, la pietra leccese, una singolare traduzione. Fondamentale resta, tuttavia, la ricerca della espressività delle forme astratte, che non significa per lui distacco dalla realtà, ma un modo per esprimere sensazioni ed emozioni e far diventare l’arte parte viva della realtà. La più recente produzione si muove nella direzione di una visione in cui forme e materiali giocano sul filo di una ambiguità, tra seduzione e distacco, tra bellezza sensibile e puro intelletto. Le mostre personali sono state momenti di verifica e di riscontro critico.

di Lucio Galante


Lucio Galante è nato a Barletta, dopo la Laurea in Lettere Moderne con tesi in Storia dell’arte moderna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Lecce, ha usufruito di una Borsa di studio, ministeriale, di addestramento didattico-scietntifico, presso la cattedra della stessa disciplina. Assistente ordinario di Storia dell’arte alla stessa cattedra, è stato successivamente Professore associato nella stessa Facoltà e Professore ordinario nella Facoltà di Beni Culturali, tenendo, nel corso degli anni, gli insegnamenti di Storia dell’arte moderna, Storia dell’arte contemporanea e Metodologia della Storia dell’arte. Ha svolto le sue ricerche fondamentalmente nell’ambito della storia della pittura meridionale tra ‘500 e ‘800, i cui risultati sono stati concretizzati in saggi monografici e di impianto storiografico; a queste ricerche ha affiancato una costante attenzione all’arte contemporanea, con particolare riguardo agli artisti emergenti di origine salentina, i contributi critici sui quali sono stati quasi totalmente raccolti nel volume Scritti ad arte (Congedo Editore, 2015) a cura di Massimo Guastella. Inoltre ha curato, o vi ha collaborato, numerose mostre.

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